20° Congresso Interassociativo AMD-SID Lombardia, Gardone Riviera (BS), 3-4 ottobre 2014

La comorbilità nel paziente diabetico: nuove competenze per il diabetologo

Il 3 e 4 ottobre 2014 si è tenuto a Gardone Riviera il 20° Congresso Interassociativo AMD SID Regione Lombardia. Da vent’anni le due Società organizzano congiuntamente il Convegno Regionale, segno di collaborazione e condivisione degli aspetti scientifici e socio-sanitari del diabete mellito in Lombardia. Il programma scientifico si è caratterizzato per una particolare attenzione al tema delle co-morbilità che affliggono i pazienti diabetici e complicano la gestione della malattia. Dopo l’apertura e i saluti ai partecipanti, era prevista una Sessione su Malattia Cardiovascolare e Diabete, in cui relatori di estrazione diabetologica e cardiologica hanno cercato di dare una risposta alle domande ancora aperte sulla fisiopatologia, in particolare sui meccanismi di infiammazione e attivazione immunitaria, sulla terapia medica antiaggregante, e sulla EBM a supporto dell’indicazione alle procedure di rivascolarizzazione. La Lettura Magistrale è stata dedicata alla co-morbilità per eccellenza ovvero la disabilità fisica, il cui rapporto con il diabete è stato discusso nei suoi aspetti epidemiologici e fisio-patologici, puntualizzando il ruolo del deficit di forza e di massa muscolare nella perdita di autonomia e nell’incremento del rischio di morbilità e mortalità nel paziente diabetico. La sessione successiva ha riguardato un’altra importante co-morbilità come la patologia ossea del paziente diabetico. In particolare, sono stati presentati dati a supporto dell’associazione tra alterazioni del metabolismo fosfo-calcico indotte dall’insulino-resistenza e dal diabete e la malattia aterosclerotica. Quindi, sono state sviscerate le caratteristiche dell’impegno osseo nel diabete e l’effetto dei farmaci ipoglicemizzanti sull’osso stesso. Un’altra sessione ha trattato i meccanismi d’azione dei nuovi farmaci per la cura del diabete; in particolare sono stati discussi i loro effetti extra-glicemici e il loro impatto sulle co-morbilità e sulle complicanze del diabete. Il tradizionale Simposio congiunto con OSDI è stato invece dedicato alle indicazioni dell’esercizio fisico nel diabete di tipo 1 e 2 e al ruolo dell’infermiere. Uno spazio significativo è stato riservato alla Ricerca istituzionale SID e AMD. In particolare, è stato illustrato lo stato dell’arte dello Studio “RIACE”, uno dei grandi studi di “Diabete e Ricerca SID”, che ha prodotto ad oggi 14 lavori pubblicati su riviste scientifiche di alto profilo. Successivamente, nello spazio di Ricerca AMD, sono stati presentati i principali risultati dell’analisi dei dati della rete, dagli Annali alla beta cellula e alle ipoglicemie.

A conclusione dei lavori è stata organizzata la tradizionale Tavola Rotonda Istituzionale per fare il punto sulla situazione attuale e le incerte prospettive future della Diabetologia in Lombardia, con un confronto fra i diversi attori coinvolti nella gestione della malattia: le Società Scientifiche Diabetologiche dell’età adulta e pediatrica, l’OSDI, le Associazioni dei pazienti e il Rappresentante Istituzionale della Regione. I lavori scientifici inviati dai soci sono stati più di 30 e ampio spazio è stato dedicato alle sessioni delle comunicazioni orali presentate dai soci più giovani. I migliori contributi sono stati premiati al termine del convegno. È stata poi la volta della presentazione della migliore Tesi di Specializzazione. I contenuti scientifici sono stati molto apprezzati dai partecipanti, che hanno contribuito al successo del Convegno con numerosi interventi durante le discussioni. In particolare, sono state apprezzate sia la scelta delle tematiche da parte dei due Consigli Direttivi, sia soprattutto il contributo multidisciplinare dei Relatori e Moderatori di estrazione diabetologica, cardiologica, endocrinologica, reumatologica e geriatrica. I Presidenti SID e AMD e i Consigli Direttivi delle due Società esprimono grande soddisfazione per la riuscita dell’evento, che ha visto la presenza di circa 200 diabetologi e professionisti della salute, oltre che per i numerosi contributi scientifici ricevuti, che mostrano un elevato livello nella ricerca scientifica regionale.

Presidente SID Lombardia (2012-2014)

Dottoressa Emanuela Orsi

Presidente SID Lombardia (2014-2016)

Professor Gianluca Perseghin

Presidente AMD Lombardia

Dottor Antonino Cimino

Presidente Eletto AMD Lombardia

Dottoressa Patrizia Rugger

Relatori e Moderatori

Angelo A. Beretta, Paola Bollati, Antonio C. Bossi, Iacopo Chiodini, Alessandra Ciucci, Olga E. Disoteo, Roberto A. Dodesini, Massimo Federici, Ivano Franzetti, Stefano Genovese, Carlo B. Giorda, Angela Girelli, Giuseppe Lepore, Elisabetta Lovati, Antonio Mafrici, Patrizio Marnini, Ferdinando Massari, Franco Meschi, Maria Luigia Mottes, Nicoletta Musacchio, Patrizia Pappini, Silvana Pastori, Piermarco Piatti, Antonio E. Pontiroli, Giuseppe Pugliese, Umberto Raggi, Donata Richini, Alessandro Rubinacci, Paolo Rumi, Tiziano Scalvini, Luigi Sciangula, Tiziana Terni, Silvia I Testero, Roberto Trevisan, Umberto Valentini, Monica Vecchi, Stefano Volpato

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COMUNICAZIONI

ALTERAZIONI DEL METABOLISMO GLUCIDICO IN CORSO DI TRATTAMENTO CON INIBITORI DELLE TIROSIN-CHINASI NELLA LEUCEMIA MIELOIDE CRONICA: UN PROBLEMA REALE?

D. Cattaneo, D. Zimbalatti, A. Iurlo, E. Orsi

Fondazione IRCCS Ca’ Granda, Ospedale Maggiore Policlinico, Milano

L’impiego degli inibitori delle tirosin-chinasi (TKI) nel trattamento della leucemia mieloide cronica (LMC) ha cambiato radicalmente la storia naturale di questa malattia, migliorando drasticamente l’aspettativa di vita di questi pazienti. I TKI di prima (imatinib) e seconda generazione (dasatinib e nilotinib) esplicano la loro azione farmacologica su diversi bersagli molecolari e, per tale motivo, presentano diversi possibili effetti collaterali. Alcuni dati, per lo più derivati da analisi di studi clinici controllati, hanno dimostrato che i TKI possono alterare il metabolismo glucidico nei pazienti affetti da LMC, sia diabetici che non. In questo studio abbiamo pertanto voluto valutare l’assetto glucidico in una coorte non selezionata di 88 pazienti affetti da LMC in terapia con TKI.

A questo fine per ciascun paziente sono stati misurati i livelli di glicemia a digiuno, emoglobina glicata, insulinemia e peptide-C. Abbiamo inoltre analizzato la secrezione delle cellule beta pancreatiche e la resistenza all’insulina attraverso i modelli matematici HOMA-B e HOMA-IR. La diagnosi di diabete (DM) e di alterata glicemia a digiuno (IFG) sono state definite in accordo con i criteri dell’American Diabetes Association. Nella coorte di pazienti da noi valutata, la diagnosi di DM/IFG era presente in 12 casi (14%). Confrontando i tre gruppi di trattamento, la presenza di iperglicemia a digiuno e di DM è risultata più elevata nel gruppo di pazienti trattati con nilotinib, ma a tale dato non corrispondeva una differenza statisticamente significativa. Questo ultimo gruppo di pazienti presentava inoltre livelli più elevati di insulinemia e peptide-C oltre che di HOMA-IR, rispetto agli altri due gruppi (p<0,05), mentre differenze statisticamente significative non sono emerse per ciò che riguarda l’HOMA-B. I pazienti diabetici trattati con qualunque TKI hanno mostrato un’età più avanzata (p<0,05), livelli più elevati di HOMA-IR (p<0,05), di indice di massa corporea (BMI) (p<0,01) e di peso corporeo (p<0,019).

I nostri dati sono di fatto in linea con i pochi report presenti in letteratura. Il reale meccanismo patogenetico alla base di queste alterazioni non è conosciuto, tuttavia nella coorte di pazienti da noi analizzata la presenza di DM sembra essere associata all’insulino-resistenza e all’incremento dei valori di BMI.


ELEVATE GLICEMIE A DIGIUNO ED INSULINORESISTENZA EPATICA SONO FATTORI DI RISCHIO DI EPATOCARCINOMA IN PAZIENTI AFFETTI DA CIRROSI EPATICA CANDIDATI A TRAPIANTO DI FEGATO

V. Grancini1, M.E. Lunati1, D. Zimbalatti1, L. Boselli2, R. Bonadonna3, E. Orsi1

1Dipartimento di Scienze Mediche, Università degli Studi di Milano, UO Endocrinologia e Diabetologia, Fondazione IRCCS Ca’ Granda, Milano; 2UO Endocrinologia e Metabolismo, Università di Verona e Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata, Verona; 3Divisione di Endocrinologia, Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università di Parma, Parma

Introduzione: il carcinoma epatocellulare (HCC), prima causa di morte nei pazienti cirrotici, ha come fattori di rischio noti HCV, HBV ed alcol, ed è frequentemente associato a sindrome metabolica (SM), il cui meccanismo patogenetico di base è creduto essere l’insulino-resistenza (IR) in senso lato. Dei vari tratti componenti l’IR non è noto quale sia più specificamente associato a HCC. 

Scopo dello studio: valutare, in pazienti cirrotici candidati a trapianto, l’associazione fra metabolismo glucidico, IR e presenza di HCC. 

Materiali e Metodi: 104 pazienti 33M/71F, di 53 ± 9 anni, con cirrosi, di cui 30 affetti da HCC, sottoposti a valutazione antropometrica, metabolica basale e a OGTT, le cui curve di glucosio/C-peptide sono state analizzate mediante modelli matematici. È stato calcolato l’HOMA-IR, indice complesso che riflette clearance insulinica (CI), secrezione insulinica basale (BSR), glicemia a digiuno (FPG), IR epatica e IR periferica. BSR è stata derivata dall’analisi modellistica del C-peptide. La CI è stata stimata dal rapporto fra BSR e insulinemia a digiuno. L’IR periferica è stata stimata mediante OGIS. 

Risultati: CI, BSR, e IR periferica non erano associate a HCC (p=0,20-0,50), mentre lo erano HOMA-IR e glicemia a digiuno (p<0,05). In regressione multipla, solo HOMA-IR rimaneva predittore indipendente di HCC (p<0,04). 

Conclusioni: in pazienti cirrotici candidati a trapianto HOMA-IR è l’unico predittore indipendente di HCC. Poiché né BSR, né CI né IR periferica sono correlate a HCC, questa associazione è mediata da iperglicemia a digiuno/IR epatica.


LA TERAPIA CON MICROINFUSORE INSULINICO (CSII) RIDUCE LA PROGRESSIONE DEL DANNO RENALE IN PAZIENTI CON DIABETE TIPO 1 E MICROALBUMINURIA

G. Lepore1, D. Bruttomesso2, S. Costa2, P. Fioretto2, M. Vedovato2, E. Zarra3, A. Girelli3, A. Corsi1, C. Scaranna1, A.R. Dodesini1, U. Valentini3, A. Tiengo2, R. Trevisan1

1AO Papa Giovanni XXIII, Bergamo; 2Università di Padova, Padova; 3AO Spedali Civili, Brescia

Scopo dello studio: valutare con un’indagine multicentrica, prospettica, a lungo termine (3 anni) l’effetto della CSII vs la terapia insulinica multi-iniettiva (MDI) su controllo glicemico, livelli pressori e funzione renale in pz con IDDM microalbuminurici. 

Casistica: 26 pz trattati con CSII confrontati con 26 pz. in terapia MDI, simili per età (40,3±9,3 vs 42,2±11,1 anni), durata diabete (27±8,2 vs 24,3±10,3 anni), BMI (24,4±3 vs 24,7±4,2 kg/m2). Tutti erano in terapia con la massima dose tollerata di ACE-inibitore. 

Metodica: sono stati eseguiti ogni 6 mesi: monitoraggio PA/24 h, monitoraggio in continuo del glucosio interstiziale, GFR, AER , 8-iso-PGF2 urinario, HbA1c. 

Risultati: nel gruppo MDI, l’AER si è ridotta da una mediana di 65 µg/min (31-100 IQR) a 55 µg/min (33-155) (NS) dopo 3 anni di follow-up. Nel gruppo CSII, l’AER si è ridotta significativamente (p<0,01) da una mediana di 63 µg/min (37-154 IQR) a 18,3 µg/min (11-57). Tre pz. MDI sono regrediti a normoalbuminuria al termine del follow-up vs 14 pz. CSII (p<0,01). Durante lo studio si è verificato un declino del GFR maggiore nel gruppo MDI (-7,9±9,9 ml/min/anno) che nel gruppo CSII (-3,08±3,3 ml/min/anno; p<0,05). I livelli di HbA1c erano simili nel gruppi (MDI vs CSII) sia all’inizio (8,49 ± 1,53% vs 8,2 ±1,02%) sia al termine dello studio (7,84 ± 1,5 vs 8,02 ± 1,31%), così come gli indici di variabilità glicemica. I valori di PA/24 h sono stati controllati in entrambi i gruppi per tutto il periodo dello studio. Il fabbisogno insulinico era significativamente maggiore nel gruppo MDI vs CSII sia all’inizio (0,67± 0,39 vs 0,50 ± 0,11 U/kg/die) che alla fine dello studio (0,67 ± 0,20 vs 0,54 ± 90,12 U/kg/die) (p<0,01). 

Conclusioni: la CSII, a parità di controllo glicemico, rallenta la progressione del danno renale nel diabete tipo 1. Il maggior fabbisogno insulinico dei pazienti in MDI suggerisce una condizione di insulino-resistenza, possibile fattore di progressione della nefropatia.


LA PRATICA DELLO SPORT IN PAZIENTI DIABETICI TIPO 1 AFFERENTI ALLE UNITÀ OPERATIVE DIABETOLOGICHE LOMBARDE: INDAGINE CONOSCITIVA

P. Rumi1, B. Barletta2, S. Benin3, S. Casati4, A. Ciucci5, R. Dagani6, I. Franzetti7, A. Girelli8, E. Meneghini9, A. Rocca9 (Gruppo “Diabete tipo 1 e sport” AMD-SID Lombardia)

1SSD Diabetologia-Endocrinologia, Azienda Ospedaliera Desio-Vimercate, Ospedale di Desio (MB); 2Andiamo (Associazione Nazionale DIAbetici in MOvimento) Onlus; 3Specialista in Scienze Motorie; 4UO Medicina Generale, Azienda Ospedaliera S. Anna, Como, Presidio Ospedaliero di Cantù (CO); 5SS Interdipartimentale Diabetologia ed Endocrinologia, Ospedale Felice Villa Presidio Mariano Comense, Azienda Ospedaliera Sant’Anna, Como; 6Struttura Semplice Diabetologia, PO Rho, Azienda Ospedaliera Salvini-Garbagnate (MI); 7UOC Endocrinologia, AO S. Antonio Abate, Gallarate (MI); 8Unità Operativa di Diabetologia, AO Spedali Civili, Brescia; 9UOS Diabetologia, Divisione Medicina, Azienda Ospedaliera Istituti Clinici di Perfezionamento, Ospedale Bassini, Cinisello Balsamo (MI)

Premessa: da pochi anni è attivo in Lombardia un gruppo di lavoro costituito da diabetologi, medici dello sport, specialisti in scienze motorie, con competenze sulla pratica sportiva nel diabete tipo 1, con l’obiettivo di supportare la formazione degli operatori dei team diabetologici, facilitare il rapporto medico/paziente nella gestione di autocontrollo e terapia, stimolare i giovani diabetici a praticare l’attività sportiva in sicurezza per migliorare la qualità della propria vita. Tra gli obiettivi per il 2014 vi è stato quello di effettuare una ricognizione all’interno delle diabetologie lombarde per verificare quante di esse annoverino tra i loro pazienti diabetici tipo 1 sportivi (sia a livello amatoriale che di elite) e quali siano gli sport più praticati. 

Materiali e Metodi: è stato scelto come strumento un questionario conoscitivo inviato alle unità operative di diabetologia della Lombardia, compilabile in formato elettronico, ed inviabile ad una casella di posta elettronica dedicata. Gli item proposti dal questionario, erano i seguenti: 1) quanti pazienti di tipo 1 sono seguiti nel vostro centro? 2) vengono seguiti pazienti che praticano attività sportiva? 3) Se sì, in quale numero orientativamente? 4) di quelli che praticano attività fisica, quanti in CSSI e quanti in MDI? 5) quali gli sport maggiormente praticati, con quale frequenza settimanale orientativa? 6) il team diabetologico ha partecipato ad eventi formativi sull’argomento? 7) i pazienti hanno seguito percorsi formativi su apporto di carboidrati, gestione di autocontrollo e terapia? 8) la struttura collabora con medici dello Sport o Laureati in scienze motorie? 

Risultati: al 30 luglio 2014 sono state ricevute le risposte di 13 unità operative. Si è evidenziata una prevalenza di pazienti in trattamento con CSII rispetto a MDI. Calcio, corsa, palestra, nuoto e pallavolo sono risultati gli sport più praticati. Si è evidenziata un’elevata variabilità nel numero dei pazienti trattati nei diversi centri. 

Conclusioni: la pratica dell’attività sportiva nei giovani diabetici tipo 1 risulta tuttora poco considerata nel contesto terapeutico delle unità operative diabetologiche, salve alcune eccezioni. È necessario proseguire nell’opera di diffusione sui benefici dello sport per i giovani diabetici, utile ad ottenere un miglioramento del compenso metabolico e della qualità di vita.


ANALISI DI UNA COORTE DI PAZIENTI IN ETÀ PEDIATRICA IN TERAPIA CON MICROINFUSORE* 

C. Rubino, F. Meschi, R. Bonfanti, A. Rigamonti, G. Frontino, R. Battaglino, V. Favalli, C. Bonura, G. Ferro, G. Chiumello 

IRCCS Ospedale San Raffaele, Milano

Scopo dello studio: valutazione di 206 bambini con T1DM in trattamento con microinfusore (CSII), afferenti al nostro centro. Il tasso di drop out da CSII è risultato del 3,4%. Il 93,2% ha seguito il percorso di selezione previsto dal nostro Centro. L’emoglobina glicata (HbA1c) media è sovrapponibile a quella di pazienti in terapia multiiniettiva (MDI) seguiti dal nostro Centro nello stesso periodo, con una riduzione della deviazione standard. L’HbA1c a lungo termine non varia rispetto al valore precedente alla CSII. Il vantaggio della CSII in termini di HbA1c sembra limitato e si manifesta soprattutto nella minore variabilità glicemica. È emersa un’incidenza ridotta di complicanze acute: 1,42 episodi/100 pazienti/anno di ipoglicemia grave (la metà rispetto a pazienti in MDI) e 1,11 episodi/100 pazienti/anno di chetoacidosi diabetica. La CSII non si associa ad aumento ponderale. È emersa una correlazione diretta tra BMI e HbA1c al follow-up. La maggior parte dei soggetti svolge attività fisica, ma non si associa a riduzione di HbA1c a causa delle poche ore settimanali. Si è riscontrata una correlazione tra l’uso della cannula verticale e valori inferiori di HbA1c. Calcolatore di bolo, basali temporanee, telemedicina e il conteggio dei carboidrati sono utilizzati dalla maggior parte dei pazienti: solo il conteggio dei carboidrati correla con riduzione della HbA1c. Il 60,2% ha usato il sensore continuo della glucosio (CGM): non vi è correlazione con valori più bassi di HbA1c per la breve durata del periodo di utilizzo.

Il 53,4% dei pazienti ha sostituito almeno una volta il dispositivo e il 41,7% ha riportato un malfunzionamento, senza eventi avversi. È emersa una diversa distribuzione delle velocità basali nelle fasce d’età 0-6, 7-12 e 13-18 anni: conferma dati presenti in letteratura e il vantaggio della CSII in bambini piccoli. Il numero medio di boli è inferiore rispetto ai dati presenti in letteratura e non correla con HbA1c. La CSII si conferma un’opzione sicura ed efficace. Nella maggior parte degli studi non dà vantaggi in termini di HbA1c ma riduce notevolmente l’incidenza di complicanze acute e migliora la qualità della vita. L’uso della CSII è necessaria nel percorso verso l’uso di nuove tecnologie (es. pancreas artificiale). Occorre un confronto con gli Enti Pagatori per valutare il rapporto costo/beneficio.

* Il presente contributo è stato presentato anche nella Sezione Tesi.


Obesità e sindrome metabolica in pazienti con ipotiroidismo primario acquisito in terapia sostitutiva con L-tiroxina

G. Manzoni1, F. Martucci1, A. Oltolini1, S. Villa1, D. Zimbalatti2, G. Lattuada1, M.G. Radaelli1, E. Orsi2, G. Perseghin1,3

1Medicina Metabolica, Policlinico di Monza, Monza; 2Dipartimento di Scienze Mediche, Università degli Studi di Milano, UO Endocrinologia e Diabetologia, Fondazione IRCCS Ca’ Granda, Milano; 3Dipartimento di Scienze Biomediche per la Salute, Università degli Studi di Milano, Milano

L’ipotiroidismo è un fattore di rischio per obesità, obesità viscerale e accumulo di grasso in sede ectopica. Abbiamo quindi quantificato la prevalenza e severità del grado di obesità, sindrome metabolica (in base alla definizione ATP III), markers surrogati di steatosi epatica (Fatty Liver Index: FLI) e di obesità viscerale (Visceral Adiposity Index: VAI) in 1137 pazienti con ipotirodismo primario acquisito in terapia sostitutiva stabile con L-Tiroxina e in 583 pazienti eutiroidei con gozzo multinodulare (popolazione di controllo). I pazienti con ipotiroidismo erano più giovani (56±16 vs. 60±14 anni; p<0,001) e con BMI (28,6±6,3 vs. 27,3±5,5 kg/m2; p<0,001) e FLI (58±32 vs. 51±32; p=0,03) più elevati ma non è stata osservata alcuna differenza nel VAI (4,6±3,3 vs. 4,5±3,5), nella prevalenza di sindrome metabolica (52% vs. 54%), di diabete di tipo 2 (11% vs. 11%) e di malattia cardiovascolare (11% vs. 11%) rispetto ai pazienti con gozzo multinodulare. Nei pazienti ipotiroidei il BMI era associato in modo inversamente proporzionale al dosaggio di LT4 e direttamente proporzionale alla durata di malattia e all’età (analisi multivariata; p<0,0001). Quando il confronto tra i due gruppi è stato aggiustato per età, sesso e BMI non è stata identificata alcuna differenza nella prevalenza di sindrome metabolica, FLI e VAI. In conclusione, pazienti con ipotiroidismo in terapia con L-Tiroxina hanno un BMI superiore a quello dei pazienti eutiroidei con gozzo nodulare. La prevalenza di sindrome metabolica e i markers surrogati di fegato grasso e obesità viscerale non erano invece diversi tra i due gruppi. Il riscontro isolato di BMI più elevato nei pazienti con ipotiroidismo può dipendere dall’iniziale incremento della massa corporea avvenuto nel periodo peri-diagnostico ma non si può escludere l’effetto di un persistente difetto del metabolismo energetico non completamente corretto dalla terapia con L-Tiroxina.


EFFETTO DELLA MANIPOLAZIONE FARMACOLOGICA DEI LIVELLI CIRCOLANTI DEGLI FFA SULLA CONCENTRAZIONE SERICA DI GLP1

M.G. Radaelli1, G. Lattuada1, A. Salerno2, G. Manzoni1, F. Martucci1, A. Oltolini1, G. Fragasso2, A. Margonato2,3, G. Perseghin1,4

1Medicina Metabolica, Policlinico di Monza, Monza; 2Cardiologia Clinica, Ospedale San Raffaele di Milano, Milano; 3Università Vita e Salute San Raffaele, Milano; 4Dipartimento di Scienze Biomediche per la Salute, Università degli Studi di Milano, Milano

Gli acidi grassi liberi (FFA) sono un fattore metabolico endogeno potenzialmente capace di influenzare la risposta incretinica. La concentrazione serica di FFA infatti potrebbe contribuire a spiegare sia la ridotta secrezione di GLP1 che la resistenza all’azione di GLP1 descritte nei pazienti con diabete di tipo 2. 

In questo studio è stata quindi misurata la concentrazione serica di glucosio, insulina, c-peptide, glucagone, GLP1, GIP in condizioni di digiuno prolungato durante modulazione farmacologica non nutrizionale dei livelli serici degli FFA. Otto individui di sesso maschile non diabetici, con scompenso cardiaco cronico in condizioni cliniche stabili sono stati studiati durante due condizioni sperimentali eseguite a distanza di sette giorni. Durante lo Studio 1 è stato somministrato un bolo + infusione continua di eparina prolungata per 4 ore e titolata per raggiungere concentrazioni seriche di FFA di 1,2 mM. Durante lo Studio 2 è stato somministrato Acipimox per os titolato allo scopo di ottenere una soppressione della concentrazione serica di FFA a 0,2 mM. La concentrazione serica degli ormoni è stata eseguita mediante l’utilizzo di un sistema “multiplex protein array” capace di determinare la loro quantificazione simultanea in un singolo campione di 50 µL di volume. La concentrazione serica degli FFA è aumentata e ridotta rispettivamente nello Studio 1 e 2 come pianificato nel protocollo sperimentale. La concentrazione serica del glucosio, insulina, c-peptide, GLP1 e GIP si è significativamente ridotta durante la condizione di digiuno prolungato rispetto alla concentrazione basale, ma solo GLP1 è risultata essere differente con una precoce e più marcata riduzione della sua concentrazione nello Studio 1 rispetto allo Studio 2 (- 50±32% vs. – 24±23%; p=0,03). Anche la concentrazione serica del glucagone ha mostrato un trend per concentrazioni diverse durante lo Studio 1 (+4±9%) rispetto allo Studio 2 (-11±12%; p=0,05) quando paragonato alla concentrazione basale. In conclusione, durante condizioni di digiuno prolungato un incremento acuto della concentrazione serica degli FFA non indotto dall’assunzione di alimenti si associa a concentrazioni seriche di GLP1 ridotte rispetto a condizioni sperimentali durante le quali la concentrazione serica degli FFA è al contrario soppressa. Questo effetto non sembra essere legato alle concentrazioni seriche un poco più alte del glucagone è può rappresentare un effetto diretto della disponibilità degli FFA sulla secrezione di GLP1.


Caratteristiche cliniche a fattori patogenetici del diabete associate alla patologia pancreaica (T3cDM): studio osservazionale prospettico in pazienti candidate alla chirurgia

E. Dugnani1, V. Pasquale1, D. Liberati1, M. Scavini2, G. Balzano3, L. Piemonti1

1Biologia delle beta-cellule, Istituto di Ricerca sul Diabete (DRI), Divisione di Immunologia, Trapianti e Malattie Infettive, Istituto Scientifico San Raffaele, Milano; 2Epidemiologia & data management, Istituto di Ricerca sul Diabete (DRI), Divisione di Immunologia, Trapianti e Malattie Infettive, Istituto Scientifico San Raffaele, Milano; 3Dipartimento di Chirurgia, Istituto Scientifico San Raffaele, Milano

Introduzione: il diabete associato a malattie del pancreas esocrino (T3cDM) è un’entità clinica ancora poco caratterizzata. Gli studi disponibili sono quasi esclusivamente retrospettivi, limitati ad alcuni tipi di patologie ed in generale non sufficientemente appropriati in termini di raccolta anamnestica. 

Scopo: i) caratterizzazione del profilo clinico e degli aspetti eziopatogenetici associati al T3cDM; ii) valutare l’incidenza e identificare i fattori predittivi sia dell’insorgenza che della remissione del diabete in pazienti sottoposti a chirurgia pancreatica. 

Metodi: è stato condotto uno studio prospettico osservazionale su n=651 pazienti candidati a chirurgia pancreatica, reclutati da gennaio 2008 a dicembre 2012 presso l’Unità di Chirurgia dell’Istituto Scientifico San Raffaele. I soggetti sono stati studiati in termini di sesso, età, peso, altezza, BMI, pregressa diagnosi di diabete e familiarità. Inoltre sono stati misurati a digiuno i livelli di glicemia, insulinemia, C-peptide, HbA1c e di autoanticorpi (GADA, IA-2A, IAA, ZnT8A). L’insorgenza del diabete è stata valutata dopo l’intervento chirurgico e durante il follow-up. 

Risultati: il 38% dei pazienti studiati è risultato diabetico (età di insorgenza 64±11 anni). Nella maggioranza dei casi il diabete è insorto nei 4 anni precedenti alla diagnosi di patologia pancreatica. Il diabete mostra prevalenza eterogenea fra i differenti tipi di patologia dell’esocrino mentre presenta solo piccole differenze cliniche. T3cDM risulta associato con i classici fattori di rischio per il T2D (es.: età, sesso, familiarità e BMI) ed è caratterizzato sia dalla disfunzione beta cellulare che dall’insulino resistenza. I pazienti sottoposti a chirurgia pancreatica, entro pochi giorni dall’intervento, hanno avuto o remissione o insorgenza del diabete. Anche in questo caso l’insorgenza è associata ai riconosciuti fattori di rischio del T2D. In pazienti con tumore del pancreas non sono state osservate differenze nella remissione del diabete in seguito a chirurgia sia palliativa che resettiva. 

Conclusione: T3cDM sembrerebbe condividere con il diabete di tipo 2 molte caratteristiche tanto da far apparire le due patologie fortemente sovrapponibili dal punto di vista clinico.



POSTER

Effetto del trattamento della depressione sull’emoglobina glicata nel Diabete Mellito di tipo 2. Una esperienza in Medicina Generale

M. Passamonti1, L. Musazzi2, M. Pigni1, E. Testolin1, D. Mauro1, C. Torri1, S. Puricelli1

1Società Italiana di Medicina Generale, Medicina di Gruppo di Fagnano Olona (VA); 2Medicina Generale, Polo Didattico di Busto Arsizio (VA)

Nell’ultimo decennio il panorama scientifico internazionale ha visto un proliferare di lavori di ricerca clinica ed epidemiologica riguardanti la relazione, ormai largamente documentata, tra diabete mellito tipo 2 (DMT2) e sindrome depressiva (DE). Studi recenti provano la relazione bidirezionale tra queste due problematiche ad alta prevalenza nella società. La DE ha una prevalenza doppia nei soggetti con DMT2 rispetto alla popolazione generale ed è causa di un peggioramento del controllo glicemico, della qualità della vita e dell’aumento dei bisogni sanitari e della comparsa delle complicanze della malattia. 

Scopo dello studio: valutare l’andamento della Emoglobina Glicata (A1c), nei DMT2 con DE, dopo aver intrapreso un congruo trattamento anti-depressivo. 

Materiali e Metodi: la popolazione afferente alla Medicina di Gruppo di Fagnano Olona (VA) è di 8019 pazienti, 537 (6,7%) hanno la diagnosi di DMT2 e 713 (8,9%) quella di DE. I criteri di inclusione, usati per questo studio, sono i seguenti: DMT2 con almeno 3 anni di management nella banca dati della Medicina di Gruppo; valore della media (ultime 3) dell’A1c nell’anno precedente la diagnosi di DE; A1c dopo 4 mesi dall’inizio del trattamento con farmaci anti-depressivi e con remissione dei sintomi depressivi. Alla luce di questi criteri, il campione oggetto dello studio è costituito da 32 DMT2 con DE (M/F 8/24-Età media:72,03+9,65 a.). Il valore di A1c (media+DS), è passato da 7,8+1,75%, prima della diagnosi di DE a 6,8+1,60%, dopo 4 mesi di trattamento anti-depressivo e con remissione dei sintomi depressivi, raggiungendo la significatività statistica (p=0,02). 

Conclusioni: lo studio rimarca come il trattamento della frequente comorbilità DE, nel DMT2, sia in grado di migliorare, in modo clinicamente significativo, il controllo glicemico. È, quindi, fondamentale un’azione di ricerca della DE, nella popolazione dei soggetti con DMT2 e, una volta identificata la presenza di una DE, raccomandare il trattamento specifico.


Percorso diagnostico-terapeutico nel diabete gestazionale. Ruolo del team multidisciplinare

P. Ruggeri, S. Di Lembo, L. Guerra, E. Carrai

Centro Diabetologico Azienda Istituti Ospitalieri di Cremona

Premessa: il diabete gestazionale non adeguatamente trattato peggiora gli esiti della gravidanza oltre ad incrementare lo sviluppo di obesità in età infantile. 

Scopo dello studio: valutare l’efficacia di un percorso diagnostico-terapeutico multidisciplinare in un gruppo di gestanti affette da diabete gestazionale.

Metodi e pazienti: sono state reclutate da gennaio 2011 a giugno 2013 n. 146 gravide affette da diabete gestazionale. Ogni gravida veniva seguita da una equipe multidisciplinare composta da medico ginecologo, medico diabetologo, dietista ed infermiere.

Risultati: a) parametri materni: dall’analisi dei dati si è riscontrato che il campione presentava un’età media di 35 anni con un BMI pregravidico di Kg/m² 24,83 ±5,17. Il 57% dei casi presentava familiarità per diabete mellito, il 42% non presentava familiarità mentre per lo 0,7% il dato non è noto. Al termine della gravidanza le gravide presentavano un incremento ponderale complessivo di Kg 8,98. Sono state trattate con solo dieta 125 gestanti (85,6%) e 21 (14,4%) con terapia insulinica. Si sono osservati 47% parti spontanei; 31% tagli cesarei; 5,5% parti indotti; 5% parti con ventosa e 0,7% di aborti. Sono stati rilevati valori medi di emoglobina glicata (HbA1c) di 5,57% ±0,49.

b) parametri neonatali: il parto è avvenuto in media alla 37,65 W. I neonati presentavano un peso medio di gr. 3346. Per le complicanze neonatali si sono evidenziati: ipoglicemia 13%, disidratazione 2,4%, distress respiratorio 5%, distocia di spalla 1,6%, macrosomia 6,2% e ittero 10,8%.

Conclusione: l’inserimento delle gestanti in un percorso diagnostico terapeutico con un’équipe multidisciplinare permette di ottenere esiti materno-fetali favorevoli.


RISPOSTA TERAPEUTICA A MEDIO-LUNGO TERMINE IN PAZIENTI CON DIABETE MELLITO TIPO 2 (DMT2) TRATTATI CON “ADD-ON” DI LIRAGLUTIDE

A. Pulcina1, G. Buonaiuto2, R, Carpinteri2, F. Coletti2, A. Balini2, D. Berzi2, G. Meregalli2, G. Veronesi3, A.C. Bossi2 

1Università degli Studi di Milano, Scuola di Specializzazione in Scienza dell’Alimentazione; 2UO Malattie Metaboliche e Diabetologia, AO Ospedale Treviglio-Caravaggio (BG); 3EPIMED – Centro di Epidemiologia e Medicina Preventiva, Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università degli Studi dell’Insubria, Varese

Scopo dello studio: verificare l’evoluzione dei principali parametri metabolici e antropometrici mediante follow-up a medio-lungo termine (sino a 36 mesi) di utilizzo “add-on” di Liraglutide (Lira), agonista recettoriale del GLP-1, in pazienti con DMT2 in compenso glicometabolico non ottimale. 

Materiali e Metodi: sono state registrate retrospettivamente le principali variabili cliniche rilevate all’inizio della terapia, dopo 6, 12, 24 e 36 mesi di trattamento (durata media di follow-up: 18,5±11 mesi) di 151 pazienti (71 F, 80 M; età media 58,0±9,5 anni) portatori di DMT2 (durata media di malattia 11,0±5,6 anni) afferenti alle strutture ambulatoriali dell’A.O. Treviglio-Caravaggio.

Risultati e Discussione: durante lo studio, 78 pazienti hanno sospeso il trattamento (1 decesso da cause CV; 9 per effetti indesiderati; 40 per inefficacia terapeutica; 28 drop out). I 73 soggetti che proseguono il trattamento (58 pazienti a 24 mesi; 23 a 36 mesi) hanno presentato una soddisfacente evoluzione delle principali variabili considerate già dopo i primi 6 mesi di trattamento con Lira, mantenendo i risultati raggiunti dopo 24 e 36 mesi (“durability”). 

Conclusioni: quanto osservato rappresenta un’osservazione di pratica clinica “real-world”. Lira è un farmaco che può aiutare a ridurre il peso corporeo e a migliorare il compenso glicometabolico nei pazienti non a target con le terapie convenzionali. Un fattore incentivante la compliance terapeutica di questo farmaco iniettivo è la monosomministrazione giornaliera. D’altro canto, i sintomi gastro-enterici sono stati gli effetti “collaterali” più comunemente rilevati che, tuttavia, presentano una bassa incidenza e potenzialmente contenuti grazie all’approccio progressivo nell’aumento del dosaggio del farmaco. La significativa riduzione del peso corporeo, del BMI e il notevole miglioramento del profilo glicemico concorrono comunque a determinare una diminuzione del rischio cardiovascolare globale nei soggetti portatori di DMT2.


PROGETTO PILOTA NATHCARE (NETWORKING ALPINE HEALTH FOR CONTINUITY OF CARE): L’ESPERIENZA BERGAMASCA NELLA GESTIONE DEL DIABETE MELLITO TIPO 2 (DMT2)

G. Buonaiuto1, A.C. Bossi1, G. Fumagalli1, G. Meroni1, A. Zucchi2, G. Barbaglio2, M. Jazzetti2, M. Faconti2, C. Mascaretti2, M. Mazzoleni2, N. Allegretti3, R. Zuffada3; NATHCARE Team

1AO Treviglio; 2ASL Bergamo; 3LISPA-Regione Lombardia

Premessa: NATHCARE (www.nathcareproject.eu/) nasce dall’evoluzione del progetto europeo di telemedicina ALIAS (www.aliasproject.eu/) con lo scopo di creare una “rete di reti” in ambito di continuità assistenziale e integrazione ospedale-territorio nella gestione delle malattie croniche. Regione Lombardia – DG Salute, capofila del progetto, coordina la partecipazione alle attività di 11 enti siti in 6 Nazioni (Italia, Francia, Svizzera, Slovenia, Austria e Germania). Obiettivo di NATHCARE, cofinanziato dal Programma europeo Spazio Alpino (www.alpine-space.eu), è la realizzazione di una assistenza sanitaria integrata centrata sul paziente; la “comunità locale” quindi, delimita il contesto organizzativo in cui si attua la sperimentazione e fornisce supporto alla dimensione transnazionale del progetto, rappresentando uno dei nodi della “rete di reti”. 

Scopo dello studio: ottimizzare accesso e continuità di cura grazie a una piattaforma tecnologica e a un modello organizzativo condiviso che tenga conto delle specificità territoriali per integrare cure primarie e secondarie. 

Pazienti e Metodi: il DMT2 è la cronicità scelta dalla Provincia di Bergamo. Sono stati selezionati dai Medici di Assistenza Primaria (MAP) soggetti seguiti dal protocollo di Gestione Integrata. Il “teleconsulto” (TLCO) è una innovativa possibilità di interazione offerta ai partecipanti. 

Risultati preliminari: 26 hanno prestato consenso informato (M=17, F=9; durata media DMT2 8,5 ± 7,6 anni; BMI 27 ± 4); di questi, 22 sono trattati farmacologicamente, mentre 4 con sola dieta; valori medi di HbA1c 6,6 ± 0,8%; microalbuminuria (campione estemporaneo) 5,1 ± 4,5 mg/l; colesterolo totale 185 ± 30mg/dl; HDL 53 ± 13mg/dl; LDL 109 ± 24mg/dl; trigliceridi 118 ± 36mg/dl. 

Conclusioni: NATHCARE potrebbe permettere di implementare la collaborazione territorio-ospedale, mentre il TLCO potrebbe aiutare i MAP nelle decisioni diagnostico-terapeutiche, riducendo il numero di accessi in ambulatorio specialistico.


DISEGNO DELLO STUDIO PROCEED PER LA VALUTAZIONE DEL POSSIBILE EFFETTO ANTIPROTEINURICO DEL PARACALCITOLO, ATTIVATORE SELETTIVO DEL RECETTORE DELLA VITAMINA D, IN PAZIENTI DIABETICI IPERTESI

A. Parvanova1, I.P. Iliev1, A.C. Bossi2, M. Trillini1, S. Rota1, C. Aparicio1, M. Abbate1, S. Prandini1, V. Lecchi1, S. Yakymchuk1, N. Rubis1, R. Trevisan3, P. Ruggenenti1, G. Remuzzi1 per il PROCEED Study Group

1Centro di Ricerche Cliniche per le Malattie Rare Aldo e Cele Daccò, IRCCS-Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, Bergamo; 2UO Malattie Metaboliche e Diabetologia, AO Treviglio (BG); 3UO Malattie Endocrine, Diabetologia, AO Papa Giovanni XXIII, Bergamo

Razionale: l’aumentato introito di sodio peggiora la proteinuria e limita l’effetto antiproteinurico degli ACE inibitori (ACE-I) e degli antagonisti del recettore dell’angiotensina (ARB). Evidenze scientifiche suggeriscono un possibile effetto antiproteinurico della vitamina D; tale azione sembra sia presente solo nei pazienti in dieta ipersodica. 

Obiettivi: obiettivo primario dello “Studio prospettico, randomizzato, in cross-over, in doppio cieco, controllato con placebo per determinare l’effetto antiproteinurico dell’attivazione selettiva del recettore della vitamina D da parte del Paracalcitolo in pazienti ipertesi affetti da diabete di tipo 2 con dieta ad elevato o basso contenuto di sodio e terapia stabile con Losartan” (PROCEED) è di paragonare le variazioni dell’escrezione urinaria di albumina (uAER) dopo un mese di terapia con Paracalcitolo o con placebo in pazienti in terapia con Losartsan  con elevato o basso apporto di sodio. 

Disegno dello studio: preliminarmente la terapia con ACE-I e ARB viene sostituita con Losartan. Al basale si controllano PA, esami di laboratorio, uAER, GFR, clearance plasmatica di albumina e IgG; monitoraggio PA/24 ore. I pazienti che soddisfano i criteri di inclusione vengono randomizzati ad assumere una dieta ad alto (>200 mEq/die) o basso (<100 mEq/die) contenuto di sodio e  ulteriormente randomizzati a ricevere: 1) Paracalcitolo (2 µg/die); Wash-out; Placebo o 2) Placebo; Wash-out; Paracalcitolo. Le valutazioni vengono ripetute al termine di ogni periodo di trattamento. 90 pazienti devono terminare lo studio per raggiungere una adeguata potenza statistica. Nei 5 centri attivi sono stati arruolati 151 pazienti di cui 86 randomizzati. 56 hanno già terminato lo studio. 

Risultati attesi: si ipotizza che lo studio possa dimostrare che nei pazienti ipertesi, con diabete mellito di tipo 2, nefropatia diabetica e in trattamento stabile con Losartan, l’effetto antiproteinurico di Paracalcitolo sia influenzato dalla quantità di sodio assunto.


EFFETTO SULLA PRESSIONE ARTERIOSA DELLA INIBIZIONE COMBINATA DELL’ENZIMA DI CONVERSIONE DELL’ENDOTELINA E DELL’ENDOPEPTIDASI NEUTRA CON DAGLUTRIL IN PAZIENTI CON DIABETE DI TIPO 2 (DMT2) E CON ALBUMINURIA: UNO STUDIO RANDOMIZZATO, CONTROLLATO, CROSS-OVER, IN DOPPIO CIECO, CON PLACEBO

A.I. Parvanova1, I.M. van der Meer1,2, I.P. Iliev1, A. Perna1, F. Gaspari1, R. Trevisan3, A.C. Bossi4, G. Remuzzi1, A. Benigni1, P. Ruggenenti1, per il Daglutril in Diabetic Nephropathy Study Group

1Centro di Ricerche Cliniche per le Malattie Rare Aldo e Cele Daccò, IRCCS-Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, Bergamo; 2Department of Internal Medicine, Division of Nephrology, HAGA Hospital, Den Haag, Netherlands; 3UO Malattie Endocrine-Diabetologia, Azienda Ospedaliera Papa Giovanni XXIII-Ospedali Riuniti, Bergamo; 4UO Malattie Metaboliche e Diabetologia, AO Treviglio (BG)

Razionale: in pazienti ipertesi con DMT2, valutare gli effetti di daglutril, un inibitore combinato dell’enzima di conversione dell’endotelina e dell’endopeptidasi neutra. 

Metodi: studio randomizzato in cross-over di soggetti con escrezione urinaria di albumina (uAER) 20-999 µg/min, in terapia con losartan, destinati a ricevere, in doppio cieco, daglutril (300 mg/die) o placebo per 8 settimane (o viceversa). Endpoint primario: uAER/24h; endpoint secondari: PA mediana in studio e ambulatoriale, funzione emodinamica e renale, test metabolici e di laboratorio. 

Risultati: dei 45 pazienti arruolati (22 assegnati a daglutril, poi placebo, 23 a placebo, poi daglutril), 3 sono stati esclusi e 42 (20 vs 22) inclusi nell’analisi primaria. Daglutril non ha influenzato in modo significativo uAER (-7,6 µg/min, IQR – 78,7 a 19,0; p = 0,559); in 34 pazienti con monitoraggio 24h della PA, daglutril ha ridotto significativamente la PA sistolica (-5,2 mmHg, DS 9,4; p = 0,0013), quella diastolica (-2,5, 6,2; p = 0,015), quella pulsata (-3,0, 6,3; p = 0,019), e quella media (-3,1, 6,2; p = 0,003), cosi come la PA notturna e la PA diurna, tranne la diastolica. Inoltre, daglutril ha ridotto significativamente la PA sistolica misurata nello studio medico (-5,4, 15,4; p = 0,028), ma non la diastolica (-1,8, 9,9; p = 0,245), quella pulsata (-3,1, 10,6: p = 0,210) o quella media (-2,1, 10,4; p = 0,205) aumentando la concentrazione sierica di big-endotelina. Gli altri outcomes secondari non hanno mostrato differenze significative. Tre pazienti in trattamento con placebo e 6 in trattamento con daglutril hanno avuto lievi eventi avversi. 

Interpretazione dei dati: daglutril ha migliorato il controllo della PA nei pazienti con DMT2 e nefropatia mantenendo un profilo di sicurezza accettabile. L’inibizione combinata dell’enzima di conversione dell’endotelina e dell’endopeptidasi neutra può rappresentare un nuovo approccio al trattamento dell’ipertensione in questa popolazione ad alto rischio.


STUDIO OSSERVAZIONALE E DI INTERVENTO DI EDUCAZIONE ALIMENTARE IN POPOLAZIONE CON PREGRESSO DIABETE GESTAZIONALE A RISCHIO PER SVILUPPO DI DIABETE MELLITO TIPO 2 (DMT2): RISULTATI PRELIMINARI

V. De Mori1, E. Menegola1, G. Meregalli2, W. Pedrini3, A. Balini2, D. Berzi2, G. Buonaiuto2, R. Carpinteri2, A.C. Bossi2

1Biologia applicata alle scienze della nutrizione, Università degli Studi di Milano, Milano; 2UO Malattie Metaboliche e Diabetologia; 3Servizio di Dietetica, AO Treviglio

Introduzione: il diabete gestazionale (GDM) è un’intolleranza ai carboidrati, con iperglicemia di gravità variabile, diagnosticato in gravidanza. Le donne con GDM presentano maggior rischio di sviluppare la sindrome metabolica o DMT2. 

Scopo: esaminare i fattori di rischio associati ad alterazioni del metabolismo glucidico in donne con pregresso GDM. 

Pazienti e Metodi: sono state richiamate le pazienti con gravidanza complicata da GDM seguite nell’ambulatorio di Diabetologia tra il 2007 e il 2011. Sono stati raccolti: anamnesi, dati antropometrici ed ematochimici, abitudini alimentari e stile di vita. È stato consigliato un prelievo ematico per il dosaggio dei parametri glicometabolici, la compilazione di un diario alimentare di 3 giorni per valutare l’intake energetico, glucidico, proteico, lipidico percentuale giornaliero. È stato effettutato un incontro di educazione alimentare per valutare e migliorare le conoscenze dei macronutrienti. 

Risultati: hanno sinora aderito 66 delle 255 donne arruolabili: età al concepimento 34±5 anni (± DS), attuale 39±5 anni; peso pregravidico 67,6±15,1 kg e BMI 25,7 ±5 kg/m²; peso attuale 69,7±16,5 kg e BMI 26,6±5,4 kg/m²; glicemia basale 93±19 mg/dL a 21±13 SG; glicemia basale 106±33 mg/dL al follow-up. Il 23% delle donne al controllo presentava una glicemia basale maggiore di 110 mg/dL. L’OGTT post partum è stato eseguito solo dal 10% delle donne, il 56% ha effettuato regolari esami ematici. Peso, BMI e glicemia basale sono risultati significativamente aumentati rispetto alla condizione pregravidica. Tra i fattori di rischio emergono la familiarità del DMT2 e uno scorretto stile di vita. 

Conclusioni: i valori ematici ed antropometrici appaiono peggiorati rispetto alla condizione pregravidica, con conseguente aumento dei fattori di rischio per la sindrome metabolica o DMT2. È previsto un follow-up clinico-nutrizionale a 3 e a 6 mesi per verificare l’efficacia dell’intervento educativo che si sta operando sulle pazienti.


IPOGLICEMIE IN PRONTO SOCCORSO: PREVALENZA E CARATTERISTICHE DEL PAZIENTE DIABETICO 

N. Bazzoni1, M. Bonacina1, P. Erpoli1, E. Pigni1, B. Pirali1, R. Radin1, L. Seghezzi2, I. Franzetti1

1UO di Endocrinologia, Sezione Specialistica di Diabetologia; 2UO Pronto Soccorso, Azienda Ospedaliera “S. Antonio Abate”, Gallarate (VA)

Introduzione e Scopo: è noto che le ipoglicemie sono associate ad un eccesso di morbidità e mortalità nei diabetici di tipo 1 e 2. Scopo del nostro studio è stato valutare il numero di accessi al Pronto Soccorso (PS) dell’Ospedale “S.A. Abate” di Gallarate (VA) e il numero di ricoveri per ipoglicemia avvenuto dal 1° gennaio 2012 al 1 aprile 2014 presso il reparto di Endocrinologia dello stesso Ospedale.

Pazienti e Metodi: gli accessi per ipoglicemia in questo periodo sono stati 188: 32 pazienti (16 maschi e 16 femmine), età media 63 anni + 21.09, sono stati ricoverati presso la UO di Endocrinologia; 42 sono stati ricoverati in altri reparti. 

Risultati: dei 32 pazienti ricoverati presso la UO di Endocrinologia, 2 pazienti presentavano ipoglicemia non correlata a diabete mellito (DM), 24 erano affetti da DM 2 (75%) con età media 77 anni ± 15,7; durata media di malattia 19,5 anni ± 6,9; 6 da DM 1 (18,7%) con età media 39,6 anni ± 13,1; durata media del diabete era di 19,8 anni ± 10,8. La durata media della degenza è stata di 8,0 ± 2,6 giorni; un paziente deceduto per shock multiorgano da stato settico. Al triage, per quanto riguarda lo stato di vigilanza, 13 pazienti (40,6%) erano giunti in stato di coma (4 di tipo 1 e 9 di tipo 2). In merito alla terapia antidiabetica 17 pazienti (53,1%) era in terapia ipoglicemizzante orale; dieci (31,3%) in terapia insulina; tre pazienti (9,3%) in terapia mista ipoglicemizzante orale e insulinica. Tra i pazienti in terapia orale 14 (43,7%) assumevano sulfoniluree da sole o in associazione (6 in associazione con metformina e 1 con pioglitazone). In particolare 7 erano in terapia con glimepiride, 2 con gliclazide e 5 con glibenclamide. Tra le complicanze riscontrate nei pazienti diabetici: 10 pazienti (31,2%) avevano cardiopatia ischemica; 7 pazienti (38,8%) retinopatia; 5 pazienti (15,6%) polineuropatia e 11 pazienti (34,3 %) nefropatia con insufficienza renale cronica.

Discussione e Conclusioni: l’ipoglicemia è la causa principale di accesso in PS nei pazienti diabetici sia nei tipi 1 che nei tipi 2. In una percentuale non trascurabile di casi questi accessi portano al ricovero ospedaliero (39,4% dei casi nella nostra casistica). Tra i potenziali elementi in grado di favorire l’insorgenza o il peggioramento dell’evoluzione di una crisi ipoglicemica, risultano essere importanti il tipo di terapia ipoglicemizzante in atto, in particolare, come prevedibile, la terapia con sulfonilurea è risultata essere la più frequente nella nostra casistica. Le patologie intercorrenti, in particolare insufficienza renale cronica, anemia, stati infettivi, patologie oncologiche, si sono dimostrate essere un importante fattore di rischio per lo sviluppo di ipoglicemia. L’uso dei nuovi farmaci antidiabetici orali, ove possibile e indicato clinicamente, e l’educazione terapeutica sul corretto uso dell’insulina e sulla scelta del dosaggio più appropriato, devono essere implementati per ridurre la frequenza e la gravità delle ipoglicemie. La segnalazione di questi eventi avversi non è purtroppo ancora diventata consuetudinaria tra i medici di PS e tra i diabetologi stessi: andrebbe invece sempre fatta anche per evidenziare il peso del problema agli enti regolatori che sono, ancora oggi, molto (troppo) rigidi nel consentire l’uso di farmaci in questo senso molto meno pericolosi delle sulfoniluree.


SINDROME METABOLICA E INIBITORI DELLE TIROSIN-CHINASI NELLA LEUCEMIA MIELOIDE CRONICA

D. Cattaneo, D. Zimbalatti, A. Iurlo, E. Orsi

Fondazione IRCCS Ca’ Granda, Ospedale Maggiore Policlinico, Milano

La leucemia mieloide cronica (LMC) è una neoplasia mieloproliferativa caratterizzata da una traslocazione patognomonica del tipo t(9;22). L’introduzione degli inibitori delle tirosin-chinasi (TKI) ha modificato drasticamente la storia naturale della malattia. I TKI di prima (imatinib) e seconda generazione (dasatinib e nilotinib) riconoscono diversi target molecolari e tali differenze possono giustificare il diverso profilo di effetti collaterali. In particolare, è noto che i tre TKI possono produrre effetti diversi sul metabolismo glucidico, mentre al momento attuale non sono disponibili dati sull’insorgenza della sindrome metabolica (SM).

Sono stati perciò raccolti campioni di sangue periferico di 88 pazienti affetti da LMC e trattati con TKI. Di ciascun paziente sono stati valutati la glicemia a digiuno, l’emoglobina glicata e i livelli serici di insulina e di peptide-C. La funzionalità delle cellule beta pancreatiche è stata valutata attraverso i modelli matematici HOMA-B e HOMA-IR. Sono stati misurati da ultimo parametri antropometrici e biochimici per porre diagnosi di SM in base ai criteri ATP III. Nella popolazione in studio, la diagnosi di SM è stata posta in 26 casi (31%). Fra i tre gruppi di trattamento, la percentuale più elevata di SM è stata identificata nel gruppo con nilotinib (p<0,01). In tale gruppo, correggendo i dati per età e sesso, i livelli di colesterolo totale (p<0,01) e LDL (p<0,01) sono risultati significativamente più elevati rispetto ai casi trattati con imatinib e dasatinib. I valori di omocisteinemia, calcolati nell’ambito del rischio cardiovascolare, sono risultati significativamente maggiori nel gruppo trattato con dasatinib (p<0,01) e maggiori, ma non in modo significativo, nel gruppo di pazienti trattato con nilotinib rispetto a quello trattato con imatinib. I livelli medi di HOMA-B sono risultati minori nei pazienti con SM (p<0,01); al contrario, l’HOMA-IR, analogamente al BMI, è risultato più elevato (p<0,01).

Nei pazienti analizzati la SM è quindi risultata più frequente in quelli trattati con nilotinib rispetto agli altri gruppi, ma questo non deve essere una controindicazione all’uso del farmaco, semmai suggerisce l’importanza di una valutazione multidisciplinare del paziente al fine di ridurre i rischi cardiovascolari e migliorare l’outcome a lungo termine.


Esordio di SPA 3 con grave iperglicemia e chetoacidosi in una donna di 74 anni 

S. Benedini1,2,3, A. Tufano3, E. Passeri1,3, M. Mendola2,3, L. Luzi1,2,4, S. Corbetta1,2

1Dipartimento di Scienze Mediche per la Salute, Università degli Studi di Milano, Milano; 2Centro di Ricerca sui Metabolismi, IRCCS Policlinico San Donato, San Donato M.se (MI); 3Unità di Endocrinologia, IRCCS Policlinico San Donato, San Donato M.se (MI); 4Area di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo, IRCCS Policlinico San Donato, San Donato M.se (MI)

Il diabete mellito tipo 1 (DM1), le malattie autoimmuni della tiroide e la gastrite autoimmune spesso si manifestano insieme formando la cosiddetta sindrome poliendocrina autoimmune (SPA) di tipo 3. 

Descriviamo il caso di una paziente, donna caucasica di 74 anni, che è stata ricoverata d’urgenza al Pronto soccorso del Policlinico San Donato per una grave sonnolenza e apatia. La paziente da qualche giorno presentava improvvisa comparsa di polidipsia e poliuria dopo sintomi aspecifici simil-influenzali. All’esame obiettivo, si evidenziava una grave disidratazione. I parametri vitali evidenziavano solo una ipotensione lieve (100/60 mmHg). I suoi valori di laboratorio all’arrivo in P.S. evidenziavano un livello di glucosio di 1105 mg/dl. La TC dell’encefalo ha mostrato alcun spazio notevole occupante lesione cerebrale o anomalie della densità della materia bianca o grigia. Dopo il trattamento con insulina in infusione endovenosa la paziente ha ripreso conoscenza dopo 3-4 ore senza sequele neuropsichiatriche. È stata ammessa all’Unità di Endocrinologia del Policlinico San Donato con la stabilizzazione dei parametri metabolici nel giro di 3 giorni. Lo screening endocrino mostrava grave ipotiroidismo (TSH serico: 102 μU/ml). Per tale motivo la paziente è stata trattata con l-tiroxina visto il grave ipotiroidismo. I segni clinici associati con ipotiroidismo erano colesterolo totale alto (248 mg/dl), alta CK (186 UI/l) e all’ecografia del collo si conferma della presenza di tiroidite autoimmune. Durante una EGDS è stato rilevato gastrite cronica atrofica, confermata da elevata MCV (100,5 FL), basso valore di folati 5 ng/ml e vitamina B12 (199 pg/ml). Gli autoanticorpi anti GAD sono risultati positivi, così come ICA e IA2. Il valore di TSH era molto alto (102 μUI/ml), mentre il valore FT4 è risultato basso (0,15 ng/dl), con anticorpi positivi anti TPO, e anti Tg. È interessante notare che una paziente del tutto asintomatica per malattie autoimmuni ha avuto un esordio acuto di SPA-3 all’età di 74 anni. Oggi è chiaro che il diabete di tipo 1 non è strettamente legato all’età giovanile, tuttavia abbiamo voluto segnalare questo caso di grave iperglicemia con chetoacidosi come sintomo d’esordio di una malattia multi-organo (beta-cellula, stomaco e tiroide) su base autoimmune.


LA METFORMINA PREVIENE I DANNI INDOTTI DALLA SEDENTARIETÀ IN MODELLI MURINI

P. Senesi1,2, A. Montesano1, R. Codella1,2, S. Benedini1,2, L. Luzi1,2, I. Terruzzi I2,3

1Dipartimento di Scienze Biomediche per la Salute, Università degli Studi di Milano, Milano; 2Centro di Ricerca sui Metabolismi e Dipartimento di Endocrinologia e Malattie Metaboliche, IRCCS Policlinico San Donato, Milano; 3Divisione di Scienze Metaboliche e Cardiovascolari, Unità di Nutrigenomica e Differenziamento Cellulare, IRCCS Ospedale San Raffaele, Milano

L’Insulino Resistenza (IR) è la principale caratteristica del Diabete di Tipo 2 (T2DM). L’interazione tra fattori genetici, ambientali e uno stile di vita sedentario promuove la progressione dell’IR. L’uso della Metformina (MET) viene valutato nella prevenzione e nel trattamento di danni causati dalla sedentarietà. Studi recenti hanno dimostrato che il trattamento cronico con METF può aumentare la durata della vita in topi anziani. Inoltre, il nostro gruppo ha dimostrato come un trattamento acuto con METF stimoli il processo di ipertrofia in mioblasti murini immortalizzati (C2C12). Al fine di determinare se METF potesse avere un effetto sui danni causati dalla sedentarietà, è stata studiata l’azione di questo biguanide su topi C57BL/6, di 12 settimane, cui è stata somministrata METF (250 mh/kg al giorno) per 60 giorni. All’inizio ed alla fine dello studio è stata effettuata una valutazione della performance atletica. 

I dati raccolti a seguito dell’esercizio hanno evidenziato un aumento della performance fisica nei topi trattati con METF. Per spiegare questa evidenza, sono stati analizzati i principali tessuti target dell’insulina. I risultati in Western Blot nel muscolo scheletrico mostrano come la METF aumenti l’attivazione della via di signaling di AKT, chinasi centrale nel signaling insulinico e nei meccanismi di mantenimento funzionale del muscolo scheletrico. Inoltre, la METF abbassa i livelli proteici delle principali chinasi coinvolte nello stress ossidativo epatico, le ERK.

Per chiarire gli effetti osservati nel test in vivo le cellule C2C12 sono state trattate con 400 µM di METF. I test in vitro sulle C2C12 mostrano la positiva influenza di METF sulla formazione e maturazione dei miotubi e nella regolazione delle proteine CAMKII, chinasi regolatrici dei segnali del Calcio.

Questi risultati suggeriscono un nuovo impiego di METF nella prevenzione e trattamento dell’IR, nelle patologie di invecchiamento e nei danni causati dalla sedentarietà. 


Studio dei meccanismi molecolari coinvolti nell’atrofia del muscolo insulino resistente in pazienti affetti da distrofia miotica

A. Montesano1, P. Senesi1,2, C. Cardani3, L. Renna4, R. Colombo4, G. Meola3,5, L. Luzi1,2, I. Terruzzi2,6

1Dipartimento di Scienze Biomediche per la Salute, Università di Milano, Milano; 2Centro di Ricerca sui Metabolismi e Dipartimento di Endocrinologia e Malattie Metaboliche IRCCS, Ospedale San Donato, Milano; 3Laboratorio di Istopatologia Muscolare e Biologia Molecolare, IRCCS Ospedale San Donato, Milano; 4Dipartimento di Bioscienze, Università di Milano, Milano; 5Dipartimento di Neurologia, Università di Milano, Milano; 6Divisione di Scienze Metaboliche e Cardiovascolari, Unità di Nutrigenomica e Differenziamento Cellulare, IRCCS Ospedale San Raffaele, Milano

Il muscolo di pazienti non obesi affetti da forme di distrofia miotica (DMs) è caratterizzato da insulino resistenza (IR). Anomalie a carico del recettore dell’insulina (InsR) sono associate sia alle DMs sia alla patologia diabetica. Nelle DMs si osserva un alterato splicing del InsR, che ha come conseguenza un mutato rapporto delle isoforme InsR-A/Ins-B. In precedenza abbiamo dimostrato come nei pazienti affetti da DM di tipo 2 tale diverso rapporto non fosse associato ad alterazioni nella formazione dei miotubi, speculando che l’IR non sia direttamente coinvolta nella miogesi ma influenzi la risposta insulinica. Per chiarire ciò abbiamo investigato la possibile relazione tra i meccanismi molecolari coinvolti nell’insulino resistenza e nell’atrofia muscolare in soggetti sani e affetti da DMs. A tale scopo, usando biopsie ottenute dal bicipite brachiale di soggetti sani e malati, abbiamo condotto studi di Western Blot ed Immunofluorescenza ex vivo ed in vitro. In dettaglio, le cellule satellite isolate dalle biopsie, sono state cresciute in terreno implementato o no con acido tioctico, noto insulino mimetico. I miotubi neoformati sono stati trattati con 10-7 M insulina per 0, 10, 15 e 30 minuti.

In vitro, i DMs miotubi mostrano un’alterata risposta allo stimolo con insulina: il pathway AKT/p70S6 presenta tempi di attivazione più brevi se comparato con il controllo. Il pre trattamento con acido tioctico aggrava tale situazione. 

Ex vivo, la determinazione del grado di attivazione di AKT conferma il dato in vitro, suggerendo un possibile legame molecolare tra il danno muscolare e i difetti del segnale insulinico. 

I risultati ottenuti gettano le basi per ulteriori studi finalizzati a comprendere i meccanismi molecolari comuni tra danno muscolare e IR al fine di individuare nuovi target farmacologici non solo per il trattamento delle DMs ma anche per le altre patologie caratterizzate da deficit muscolare e insulino resistenza. 


Ranolazina promuove l’ipertrofia nel muscolo scheletrico attivando il pathway CaLCIO/calmodulina

I. Terruzzi1,3, P. Senesi2,3, A. Montesano2, L. Luzi2,3

1Divisione di Scienze Metaboliche e Cardiovascolari, Unità di Nutrigenomica e Differenziamento Cellulare, IRCCS Ospedale San Raffaele, Milano; 2Dipartimento Scienze Biomediche per la Salute, Università di Milano, Milano; 3Centro di Ricerca sui Metabolismi e Dipartimento di Endocrinologia e Malattie Metaboliche IRCCS Ospedale San Donato, Milano

Il diabete di tipo 2 è consequenziale ad una ridotta secrezione di insulina da parte del pancreas e da un’alterata sensibilità all’insulina da parte di fegato, muscolo e tessuto adiposo. È stata dimostrata una riduzione delle concentrazioni plasmatiche di emoglobina glicata (HbA1c) in pazienti diabetici in terapia con Ranolazina (RAN), farmaco anti-ischemico che agisce bloccando la corrente tardiva del Na+. Tuttavia i meccanismi ipoglicemici con cui RAN agisce a livello muscolare non sono stati completamente delucidati. 

Questo lavoro ha lo scopo di analizzare gli effetti ed i meccanismi della RAN nel muscolo scheletrico, usando un modello in vitro di mioblasti murini (C2C12). 10µM RAN sembra potenziare la capacità proliferativa dei mioblasti, influenzando la sintesi degli inibitori del ciclo cellulare. È interessante notare come RAN non modifica il grado di attivazione della chinasi p70S6, suggerendo come il farmaco non moduli i classici meccanismi regolatori della crescita cellulare. Durante il differenziamento RAN incrementa la formazione dei miotubi. Anche in questo caso, il farmaco non stimola le chinasi chiave del differenziamento muscolare (ERK e AKT). Infine, a livello dei miotubi neo formati RAN attiva il segnale della Ca2+/calmodulina protein chinasi (CaMKII), fondamentale nella regolazione del trasporto di GLUT4 e nel processo ipertrofico.

I dati ottenuti portano a speculare che nel muscolo scheletrico l’azione positiva della RAN non coinvolga l’attivazione dei classici pathways insulinici ma altri meccanismi implicati nell’ipertrofia (calcio/calmodulina). Questi risultati gettano le basi per nuove indagini mirate allo sviluppo di innovative terapie antidiabetiche e delle complicanze associate.


RUOLO DI L-CARNITINA NELL’IPERTROFIA E NELLA FUNZIONE MITOCONDRIALE DEL MUSCOLO SCHELETRICO

L. Luzi1,2, A. Montesano1, P. Senesi1,2, S. Benedini1,2, I. Terruzzi2,3

1Dipartimento di Scienze Biomediche per la Salute, Università degli Studi di Milano, Milano; 2Centro di Ricerca sui Metabolismi e Dipartimento di Endocrinologia e Malattie Metaboliche, IRCCS Policlinico San Donato, Milano; 3Divisione di Scienze Metaboliche e Cardiovascolari, Unità di Nutrigenomica e Differenziamento Cellulare, IRCCS Ospedale San Raffaele, Milano

Il diabete mellito di tipo 2 (T2DM) è una malattia metabolica caratterizzata da deficit nella sintesi e/o nella funzionalità insulinica. L’Insulino Resistenza (IR) muscolare rappresenta un indice primario dell’insorgenza di T2DM. Un meccanismo chiave nella genesi dell’IR è il deficit nella biogenesi e nella funzione mitocondriale, spesso associato a stress ossidativo. L-Carnitina (CARN), nutriente essenziale, svolge un’azione importante nel trasporto degli acidi grassi, nel loro utilizzo mitocondriale e nella loro degradazione. Per questo CARN è stata testata come integratore per migliorare sia le condizioni caratterizzate da degenerazione muscolare sia le prestazioni atletiche. Tuttavia, gli effetti di CARN sulla miogenesi e sui processi di atrofia muscolare scheletrica non sono stati ancora chiariti. Il presente lavoro affronta questo aspetto studiando il differenziamento e le caratteristiche morfologiche di mioblasti murini immortalizzati (C2C12) trattati con CARN.

Dopo un esperimento dose/risposta preliminare, nelle fasi di proliferazione e durante il processo di differenziamento sono state studiate le caratteristiche morfologiche delle C2C12 trattate con CARN 5 mM, la risposta al segnale insulinico, i pathways di stress ossidativo e la genesi di atrofia.

I dati ottenuti indicano che CARN regola positivamente la capacità proliferativa dei mioblasti, accelera la formazione dei miotubi e induce cambiamenti morfologici tipici del processo ipertrofico. CARN incrementa l’attività di AKT e quindi, conseguentemente, le vie di sintesi cellulare regolate da questa chinasi. Ma soprattutto, CARN modula positivamente la biogenesi mitocondriale e negativamente i principali regolatori dei fenomeni di stress ossidativo (SOD).

In conclusione, i dati ottenuti suggeriscono un interessante nuovo uso terapeutico di CARN nel trattamento di condizioni patologiche caratterizzate da insulino-resistenza, compromissione mitocondriale da stress ossidativo nel muscolo scheletrico e atrofia.


L’esercizio fisico induce una risposta anti-infiammatoria ed effetti positivi sul metabolismo del modello murino NOD (non-obeso-diabetico)

R. Codella1,2,3, G. Lanzoni2, A. Zoso2, A. Montesano1, I. Terruzzi4, A. Caumo1,3, L. Luzi1,2,3, L. Inverardi2

1Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Scienze Biomediche per la Salute, Milano; 2Diabetes Research Institute, University of Miami, J. Miller Medical School, Miami, FL, Stati Uniti; 3Centro di Ricerca sui Metabolismi, IRCCS Policlinico San Donato Milanese (MI); 4Divisione di Scienze Metaboliche e Cardiovascolari, Unità di Metabolismo, Nutrigenomica e Differenziazione Cellulare, Istituto Scientifico San Raffaele, Milano

Il topo non-obeso diabetico (NOD) rappresenta il modello sperimentale “standard” per lo studio del diabete mellito di tipo 1 umano (T1DM), essendo caratterizzato da una progressiva distruzione autoimmune delle cellule b del pancreas. Il topo NOD potrebbe altresì fornire un utile modello per lo studio degli effetti dell’esercizio fisico nel T1DM. Gli esperimenti qui condotti sono stati disegnati per comprendere l’impatto di un allenamento di moderata intensità sull’immunonodulazione nel T1DM. In particolare, 20 topi NOD femmine di 8 settimane, sono stati sottoposti a un regime cronico di allenamento su tapis roulant per 12 settimane (12m/min, 30min/die, 5 giorni/settimana) mentre controlli di pari età e numero sono rimasti sedentari. All’inizio e al termine del periodo allenante, sono stati monitorati glicemia non-a-digiuno e fattori immunologici plasmatici. Dopo 12 settimane di allenamento, i topi controllo sono risultati tutti diabetici (n=5) mentre soltanto 2 su 5 topi in allenamento sono diventati diabetici. È stato registrato anche un calo ponderale indotto dall’esercizio nei topi allenati rispetto ai controlli (-9%, p<0,05).

Quanto al profilo delle citochine, mentre i topi controllo non mostravano mutamenti nei fattori infiammatori rispetto allo stato di partenza, nei topi allenati è stata osservata una modesta ma significativa diminuzione di MIP-1b (-1%), IFN-g (-2%), IL-10 (-2%), IL-2 (-1%) IL-13 (-2%), GM-CSF (-2%), e un sostanziale incremento di G-CSF (+27%) rispetto ai valori basali pre-allenamento (p<0,05). Dati preliminari provenienti dall’analisi morfometrica delle sezioni pancreatiche suggeriscono la presenza di una maggiore quantità di infiltrato, e più estese aree di cellule a, nei topi sedentari. 

In sintesi, l’esercizio cronico di moderata intensità ha indotto un effetto anti-infiammatorio nei topi allenati al cospetto di una maggiore quantità di infiltrato tipica del deterioramento metabolico del T1DM nei topi controllo. L’esercizio potrebbe quindi immuno-modulare positivamente le funzioni sistemiche nei confronti del T1DM e dell’infiammazione.


Effetti di due tecniche dialitiche sul controllo glicemico e su alcuni parametri infiammatori in pazienti con malattia renale allo stadio terminale con o senza diabete mellito di tipo 2

P. Maffioli1, C. Libetta2, L. Bianchi1, R. Romano1, C. Tinelli3, P. Esposito2, E. Margiotta2, A. D’Angelo1, G. Derosa1,4

1Dipartimento di Medicina Interna e Terapia Medica, Fondazione IRCCS Policlinico S. Matteo, Università di Pavia, Pavia; 2Unità di Nefrologia, Dialisi e Trapianto, Fondazione IRCCS Policlinico S. Matteo, Università di Pavia, Pavia; 3Unità di Biometria, Fondazione IRCCS Policlinico S. Matteo, Pavia; 4Centro di Studio e Ricerche di Fisiopatologia e Clinica Endocrino-Metabolica, Università di Pavia, Pavia

Scopo: valutare gli effetti sull’escursione glicemica e sulla variazione di alcuni parametri infiammatori di una tecnica di bicarbonato dialisi (BHD) rispetto ad una tecnica di emodiafiltrazione (HDF) in pazienti affetti da malattia renale allo stadio terminale con o senza diabete mellito di tipo 2. 

Materiali e Metodi: 36 pazienti (20 diabetici e 16 pazienti non diabetici) sono stati valutati e sottoposti ad una tecnica di BHD, seguita da una tecnica di HDF due giorni dopo. Abbiamo misurato, prima e dopo le due tecniche di dialisi, questi parametri: indice di massa corporea (BMI), glicemia a digiuno (FPG), insulinemia a digiuno (FPI), HOMA-IR, profilo lipidico, omocisteina (Hcy), proteina C-reattiva ad alta sensibilità (hs-CRP), fibrinogeno, lipoproteina (a) [Lp (a)], metalloproteinasi-2 e -9 (MMP-2 e MMP-9), interleuchina-6 (IL-6), e -8 (IL-8), recettore solubile per i prodotti della glicazione avanzata (sRAGE). Tutti i pazienti sono stati sottoposti ad un monitoraggio in continuo della glicemia, il sensore è stato posizionato un’ora prima dell’inizio della BHD e rimosso cinque giorni più tardi, due giorni dopo la dialisi HDF. 

Risultati: abbiamo osservato una significativa diminuzione delle escursioni glicemiche durante la tecnica HDF nel campione in esame. In particolare, nei pazienti diabetici, la glicemia media e la deviazione standard sono risultate inferiori con HDF rispetto a BHD. Inoltre, l’ampiezza media delle escursioni glicemiche è risultata inferiore con HDF rispetto a BHD. Per quanto riguarda i parametri infiammatori, abbiamo osservato una riduzione di Hs-CRP, MMP-2 e -9 dopo HDF, ma non dopo BHD. Abbiamo osservato una diminuzione di sRAGE con BHD, ma non con HDF. Inoltre, nei pazienti diabetici di tipo 2, abbiamo osservato una correlazione significativa tra glicemia e MMP-9, e tra glicemia e Lp (a). 

Conclusione: HDF sembra essere superiore a BHD nel ridurre le escursioni glicemiche e nel diminuire i valori di alcuni marcatori infiammatori.


Effetti ipoglicemizzanti e sulla variabilità glicemica di sitagliptin in aggiunta a repaglinide o pioglitazone in pazienti diabetici di tipo 2 con malattia renale cronica

G. Derosa1,2MD, D. Romano1, L. Bianchi1, A. D’Angelo1, P. Maffioli1 

1Dipartimento di Medicina Interna e Terapia Medica, Fondazione IRCCS Policlinico S. Matteo, Università di Pavia, Pavia; 2Centro di Studio e Ricerche di Fisiopatologia e Clinica Endocrino-Metabolica, Università di Pavia, Pavia

Scopo: valutare l’effetto dell’aggiunta di sitagliptin a repaglinide o pioglitazone in pazienti diabetici di tipo 2 con malattia renale cronica. 

Materiali e Metodi: abbiamo arruolato 53 pazienti diabetici di tipo 2 con malattia renale cronica (eGFR <30 ml/min), ma non in dialisi, con diabete non ben controllato da dieta e attività fisica. I pazienti sono stati randomizzati ad assumere repaglinide, 0,5 mg tre volte al giorno, o pioglitazone, 15 mg due volte al giorno, per i primi tre mesi; poi sitagliptin 25 mg, una volta al giorno, è stato aggiunto in entrambi i gruppi per altri tre mesi. Al basale, e dopo tre e sei mesi, abbiamo valutato: il controllo glico-metabolico, il profilo lipidico, l’insulinemia a digiuno (FPI), l’HOMA-index e le escursioni glicemiche utilizzando un sistema di monitoraggio in continuo della glicemia (CGMS). 

Risultati: repaglinide e pioglitazone hanno portato ad una significativa riduzione di emoglobina glicata, sia in monoterapia che in associazione con sitagliptin. Pioglitazone ha maggiormente migliorato il profilo lipidico, sia in monoterapia che in associazione con sitagliptin. FPI e HOMA-index sono aumentati con repaglinide rispetto a pioglitazone, mentre sono diminuiti con pioglitazone in associazione con sitagliptin. Le escursioni glicemiche intragiornaliere sono risultate inferiori con pioglitazone rispetto a repaglinide, tale differenza si è mantenuta anche dopo l’aggiunta di sitagliptin. Inoltre, la variabilità glicemica è diminuita in entrambi i gruppi, con una maggiore riduzione con pioglitazone + sitagliptin. Durante lo studio non abbiamo registrato alcun significativo peggioramento dell’eGFR in nessuno dei due gruppi. 

Conclusioni: sia pioglitazone che repaglinide sono risultati efficaci nel migliorare il controllo glicemico, tuttavia, pioglitazone sembra essere migliore di repaglinide nel migliorare il profilo lipidico e nel ridurre le escursioni glicemiche, questo effetto è potenziato dall’aggiunta di sitagliptin.


La riduzione dei neutrofili nel diabete mellito di tipo 1*

G. Frontino, F. Meschi, R. Bonfanti, A. Rigamonti, R. Battaglino, V. Favalli, C. Bonura, G. Ferro, C. Rubino, M. Battaglia, M. Scavini, A. Valle, G. Chiumello

IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano

I dati che supportano il ruolo dei neutrofili nella patogenesi del T1DM sono limitati. Recentemente è stata dimostrata una lieve riduzione dei neutrofili circolanti nei soggetti affetti da T1DM (Valle et al.). Sono stati valutati retrospettivamente gli emocromi di pazienti pediatrici con esordio di T1DM. Tra i 442 pazienti esorditi tra il 1977 e il 1993 sono state recuperate popolazioni cellulari da emocromo di 58 pazienti e ed emogas analisi di 42 pazienti esorditi tra il giugno 1987 e marzo 1993 (gruppo A). Tra i 291 pazienti esorditi tra l’agosto 2006 e dicembre 2011 sono state recuperate popolazioni cellulari da emocromo di 238 pazienti e ed emogas analisi di 208 pazienti (gruppo B, coorte di Valle et al.). Le due coorti valutate non sono differenti per quanto riguarda il sesso, l’età, la glicemia, il pH e bicarbonati all’esordio. È stato osservato una riduzione dei neutrofili all’esordio, sovrapponibile a quello del Gruppo B. Questa riduzione non è correlata al pH e ai bicarbonati all’esordio né all’HbA1c all’esordio. Inoltre, questa riduzione sembra persistere fino a circa nove anni dall’esordio per poi aumentare intorno al decimo anno. Il gruppo B mostrava una normalizzazione dei neutrofili già al quinto anno dall’esordio. Tuttavia, il dato longitudinale era inficiato dalla scarsa numerosità campionaria nel tempo. Oltre ai soggetti affetti da T1DM, anche nei pancreas di soggetti pre-diabetici è stato riscontrato un aumento significativo dell’infiltrato neutrofilo. L’infiltrazione dei neutrofili precede quindi l’insorgenza dell’esordio di diabete conclamato e non è quindi conseguenza di un alterato stato metabolico. La riduzione dei neutrofili potrebbe essere quindi giustificata da un aumentato sequestro tissutale.

La maggiore riduzione dei neutrofili circolanti all’esordio e negli anni successivi, associato all’infiltrato neutrofilo che si manifesta già negli stadi preclinici di malattia, potrebbe rappresentare un fenomeno che riflette la fase di distruzione attiva autoimmune delle beta-cellule. 

I nostri dati suggeriscono che la riduzione dei neutrofili riscontrata precedentemente potrebbe perdurare per più tempo del previsto ed essere espressione di uno stato uno stato infiammatorio pancreatico persistente.

* Il presente contributo è stato presentato anche nella Sezione Tesi.


Diabete mellito e rialzo delle transaminasi come predittori di patologia epatica cronica: studio prospettico a 15 anni in soggetti obesi

A. Fanin1, A. Benetti1,2, A. Zakaria2, V. Ceriani3, A.E. Pontiroli1,2

1Dipartimento di Scienze della Salute, Università degli Studi di Milano, Milano; 2Ospedale San Paolo, Milano; 3IRCCS Multimedica, Milano

Obiettivo: valutare in pazienti obesi il ruolo del diabete e degli indici epatici sulla mortalità a lungo termine e sullo sviluppo di epatopatia cronica.

Metodi: studio prospettico di coorte di tipo record-linked con 969 soggetti affetti da obesità morbigena sottoposti ad una prima visita durante il periodo 1995-2001 [indice di massa corporea (BMI) ≥ 35 kg/m², età 18-65 anni, 221 diabetici e 748 non diabetici]. I dati raccolti includono: età, sesso, parametri antropometrici, valori pressori, parametri metabolici (glicemia, HbA1c, eGFR, colesterolo totale, colesterolo-HDL, colesterolo-LDL, trigliceridi, AST e ALT). Per la valutazione di mortalità e sviluppo di diabete mellito o epatopatia cronica entro il 30.09.2012 sono stati utilizzati dati provenienti Sistema Sanitario Regionale.

Risultati: riscontro di livelli di AST e ALT significativamente maggiori nei soggetti diabetici rispetto ai non diabetici nonostante BMI non significativamente differenti; AST e ALT non correlano con BMI; AST e ALT correlano direttamente con trigliceridi e glicemia ed inversamente con i livelli di colesterolo-HDL. Gli indici epatici sono significativamente più elevati nei soggetti diabetici rispetto ai soggetti non diabetici anche dopo group-matching per età e sesso. Sviluppo di patologia epatica cronica più frequente nei soggetti diabetici che in quelli non diabetici.

Conclusioni: in soggetti affetti da obesità, elevati livelli di AST ed ALT sono più frequenti nei soggetti diabetici rispetto ai non diabetici. ALT e AST correlano con glicemia, trigliceridi e colesterolo-HDL. I soggetti diabetici hanno un rischio a 15 anni di sviluppo di malattia epatica cronica e di mortalità significativamente più elevato rispetto ai soggetti non diabetici.


METABOLISMO ENERGETICO NELL’ORGANISMO IN TOTO DI INDIVIDUI OBESI; IMPATTO DELLA SINDROME METABOLICA

F. Martucci1, A. Oltolini1, G. Manzoni1, M. Pizzi2, M.G. Radaelli1, S. Villa1, A. Alberti2, G. Lattuada1, P. Pizzi2, G. Perseghin1,3

1Medicina Metabolica, Policlinico di Monza, Monza; 2CSRTO, Policlinico di Monza, Monza; 3Dipartimento di Scienze Biomediche per la Salute, Università degli Studi di Milano, Milano

Gli individui obesi metabolicamente sani (MHO) sono soggetti caratterizzati dalla mancata espressione fenotipica delle alterazioni metaboliche che si associano alla condizione di insulino resistenza. Allo scopo di stabilire se siano caratterizzati anche da un adattamento del metabolismo energetico abbiamo studiato 137 pazienti obesi che sono stati consecutivamente valutati nella nostra unità di Medicina Metabolica per la determinazione del dispendio energetico a riposo (REE) mediante calorimetria indiretta e composizione corporea mediante bioimpedenziometria (BIA). Questi pazienti sono stati classificati come soggetti obesi metabolicamente sani (MHO; n=58) o metabolicamente complicati (MUHO: n=79) in base alla diagnosi di sindrome metabolica stabilita secondo i criteri dell’ATP III. I pazienti MHO sono risultati essere più giovani e con valori di pressione arteriosa, glicemia e insulina, transaminasi, gGT, acido urico, trigliceridi e creatinina ridotti e di colesterolo HDL superiori a quelli dei pazienti MUHO. La composizione corporea valutata mediante BIA non era differente tra i due gruppi. I dati di calorimetria hanno mostrato che il quoziente respiratorio non era differente tra i due gruppi (0,86±0,10 vs. 0,89±0,12; p=0,13) mentre il rapporto tra la REE misurata e la REE stimata mediante l’equazione di Harris Benedict era ridotto nei pazienti MHO rispetto ai pazienti MUHO (91±9 vs. 95±9%; p=0,04). La contrazione della REE era più evidente nel sottogruppo di pazienti con BMI > 40 kg/m2 (30 pazienti MHO e 41 pazienti MUHO) nei quali la REE totale (1838±339 vs. 1956±386 Kcal/die; p<0,05), il rapporto tra REE misurata e stimata (90±11% vs. 98±11%; p<0,005) e la REE corretta per kg di massa libera da grasso (30,0±3,7 vs. 33,0±6,8 Kcal/kg of FFM/die; p=0,03) erano ridotti nei pazienti MHO rispetto ai MUHO. In conclusione, i pazienti MHO hanno un dispendio energetico a riposo contratto rispetto a quello dei pazienti MUHO e questa loro caratteristica metabolica è più accentuata nei pazienti con obesità di grado più severo.


MONITORAGGIO GLICEMICO CONTINUO – HOLTER-LIKE: LA NOSTRA ESPERIENZA

S. Perra, P. Gamba, A.I. Pincelli

Ambulatorio Diabetologia, Clinica Medica, AO San Gerardo, Monza

Il monitoraggio continuo del glucosio (CGM) è una tecnologia innovativa che prevede la misurazione continua dei livelli di glucosio nel liquido interstiziale. È costituito da un sensore sottocutaneo e da un sistema di visualizzazione e/o registrazione. La modalità Holter-Like permette allo Specialista un’analisi retrospettiva dei valori glicemici rilevati. Pochi e controversi sono gli studi al riguardo e che hanno dimostrato come l’uso di CGM porti a una riduzione significativa dell’emoglobina glicata (HbA1c). Abbiamo deciso di effettuare una valutazione retrospettiva della casistica a nostra disposizione. A 18 pazienti adulti (9M/9F) affetti da diabete mellito tipo 1 è stato posizionato CGM Holter-Like per 7 giorni consecutivi in un periodo compreso tra ottobre 2010 ed aprile 2013. Sono stati valutati età anagrafica, anni di malattia, HbA1c e terapia insulinica pre-posizionamento CGM. A distanza, rispettivamente di 6 e 12 mesi, è stato rivalutato il compenso glicemico e la posologia insulinica. Risultati: età media 49±13anni, 19±14anni di malattia, HbA1c media 8,1±0,8%, dose media di insulina somministrata quotidianamente 49±15UI (23±8UI insulina lenta, 26±10UI insulina rapida). A 6 mesi HbA1c media 7,8±0,9%, somministrazione giornaliera 47±13UI di insulina (22±6UI insulina lenta, 26±9UI insulina rapida). A 12 mesi disponibili i dati di 15 pazienti (7M/8F) con HbA1c media 7,7±1,1%, somministrazione quotidiana 48±14UI di insulina (22±7UI insulina lenta, 26±9UI insulina rapida). I dati raccolti hanno evidenziato una riduzione significativa dell’HbA1c media a 6 (-0,3%, p 0,034) ma non a 12 mesi (-0,4%, p 0,17), in assenza di variazioni significative della posologia insulinica. Alla luce di questi risultati preliminari l’uso di CGM in adulti con diabete mellito tipo 1 può essere d’aiuto nel migliorare il compenso glicemico mediante ottimizzazione della terapia insulinica. Sono necessari ulteriori studi su una maggiore dimensione campionaria per confermare questi dati.


Sistemi Integrati (SI) di infusione insulinica e monitoraggio in continuo della glicemia: motivi di abbandono, modalità di utilizzo e gradimento dei pazienti

A. Girelli, A. Tfaily, S. Bonfadini, F. Calati, E. Cimino, A. Magri, E. Zarra, U. Valentini

Unità Operativa di Diabetologia, Azienda Spedali Civili di Brescia, Brescia

Con un questionario ad hoc abbiamo indagato le cause di abbandono, le modalità di utilizzo ed il gradimento del SI in diabetici tipo 1 che avessero iniziato tale terapia nel periodo 2008-2012 (n=38, 17M/21F, età 37,13±10,40aa; durata malattia 19,5±10,12aa) presso la nostra struttura. Le indicazioni erano: 48% instabilità grave, 29% cattivo controllo e 24% ipoglicemie gravi. 10 pz entro un anno (4,7±3,8 mesi) hanno abbandonato il sensore per: complessità (4), inefficacia (2), fastidiosità allarmi (1), portabilità (1) e 1 ritorno alla MDI. L’uso del sensore era di 22,7±7,4 vs 11,1±4,5gg/mese per chi ha proseguito/abbandonato (p=0,001). I drop out misuravano più spesso la glicemia (p=0,057) ma usavano meno conteggio dei carboidrati, FSI, calcolatore di bolo e basale temporanea. Fattori predittivi dell’abbandono erano un uso sensore < al 50% del tempo (p=0,000) e livello di scolarità inferiore (p=0,026). Nei 28 pazienti che hanno continuato (durata media 2,9±1,6 aa a dicembre 2013) l’HbA1c ad 1 anno è scesa da 7,9±0,9% a 7,45±0,7%, p<0,001.

Riguardo all’uso del SI i pz riportano: impostazione vibrazione nel 79%; modalità silenziata: 52% mai, 26% 1-5 volte/settimana e 22% tutti i giorni; di questi il 63% mai per più di 6 ore, il 19% sempre. Le funzioni ritenute più importanti: frecce di tendenza (53%), grafici dei trend (50%); uso continuo sensore fino a 7 giorni (50%), integrazione del microinfusore con il ricevitore (46%), impostazioni personalizzabili (43%). Solo il 45% dei pazienti conosce tutti i propri settaggi degli allarmi. Il 92,6% riferisce di essere stato svegliato per un allarme; più del 40% 5 o più volte nelle ultime 2 settimane; il 34% dichiara soddisfacente la qualità del sonno. L’82% dei pz è consapevole dell’importanza di accuratezza e calibrazione; il 53% visualizza il display più di 10 volte/die, soprattutto i dati a breve medio termine (3-6h). L’82% dei pz scarica ed invia i dati. L’85% dei pz è soddisfatto dell’inserimento del sensore, il 56% della portabilità ed il 75% del sistema di scarico. 

Quest’analisi conferma che l’abbandono del SI avviene precocemente e sembra riguardare pz meno attivi nell’autogestione. Pur rilevando una discreta preparazione e soddisfazione di chi usa il SI, ci ha permesso di identificare elementi per migliorare e completare il percorso di selezione e formazione dei pazienti. 


STUDIO PRECLINICO DI UN NUOVO APPROCCIO TERAPEUTICO PER PREVENIRE E/O RITARDARE IL DIABETE: L’INIBIZIONE DELL’ASSE CXCR1/2

A. Citro1, A. Valle2, E. Cantarelli1, S. Pellegrini1, L. Daffonchio3, M. Allegretti3, M. Battaglia2, L. Piemonti1

1Biologia delle beta-cellule, Istituto di Ricerca sul Diabete (DRI), Divisione di Immunologia, Trapianti e Malattie Infettive, Istituto Scientifico San Raffaele, Milano; 2Malattie immunomediate: dalla patogenesi alla cura, Istituto di Ricerca sul Diabete (DRI), Divisione di Immunologia, Trapianti e Malattie Infettive, Istituto Scientifico San Raffaele, Milano; 3Ricerca e Sviluppo, Dompé Spa, L’Aquila

Introduzione: recentemente abbiamo dimostrato come l’inibizione di CXCR1/2 migliora l’attecchimento delle isole pancreatiche e prolunga le tempistiche di rigetto dopo trapianto intraepatico. 

Scopo: valutare se l’inibizione di CXCR1/2 sia in grado di prevenire e/o revertire la progressione della patologia diabetica in un modello pre-clinico di diabete spontaneo (i.e. il topo NOD). 

Metodo: prevenzione: topi NOD femmine di 4-12 settimane (gruppi 4S e 12S rispettivamente) sono stati trattati per 14 giorni mediante somministrazione orale dell’inibitore di CXCR1/2 (Ladarixin) o del veicolo (n=14 per gruppo). L’insorgenza del diabete è definita da due misurazioni consecutive di glicemia>250 mg/dl. Reversione: topi NOD femmine all’insorgenza della patologia sono stati randomizzati al fine di ricevere per 14 giorni Ladarixin (n=16) o veicolo (n=12). La glicemia è stata monitorata due volte a settimana per tutta la durata del follow up (35 giorni dall’inizio del trattamento). 

Risultati: prevenzione: al termine del follow-up di 50 settimane gli animali liberi dal diabete sono stati quantificati in ciascun gruppo. Gruppo 4S: 40% nel gruppo di animali trattati con Ladarixin e 45% nel gruppo di animali trattati con veicolo e (p=0,931). Gruppo 12S: 78% nel gruppo di animali trattati con Ladarixin e 25% nel gruppo di animali trattati con veicolo (p=0,007). L’analisi istologica effettuata nel gruppo 12S ha dimostrato l’efficacia del farmaco nel ridurre significativamente l’infiltrato leucocitario pancreatico (p<0,001). L’analisi citofluorimetrica effettuata nel gruppo 12S dimostra una riduzione delle cellule CXCR2+ (prevalentemente neutrofili) nei tessuti periferici (i.e. sangue, milza e midollo osseo). Reversione: 28 NOD che hanno sviluppato il diabete sono state randomizzate per il trattamento con Ladarixin (n=16) o veicolo (n=12). L’inibizione di CXCR1/2 è in grado di revertire la patologia diabetica e mantenere normoglicemico il 60% degli animali trattati. Al contrario, solo il 12% degli animali appartenenti al gruppo di controllo mostra reversione dalla patologia (p<0,001). L’analisi istologica dimostra come il trattamento con Ladarixin è efficace nel preservare l’integrità delle isole pancreatiche. 

Conclusione: l’inibizione di CXCR2/1 è cruciale per prevenire e per ritardare l’insorgenza del diabete nel topo NOD.


L’analisi di biopsie duodenali di soggetti con diabete di tipo 1 rivela un profilo caratteristico di espressione di geni dell’infiammazione

V. Sordi, S. Pellegrini, A. Bolla, E. Bosi, L. Piemonti

Istituto di Ricerca sul Diabete (DRI), Istituto Scientifico San Raffaele, Milano

Esistono sempre più evidenze che dimostrano che l’intestino è un organo coinvolto nella patogenesi del diabete di tipo 1 (T1D). Scopo del nostro studio è valutare se il T1D è associato a una signature infiammatoria della mucosa duodenale. Abbiamo raccolto biopsie duodenali di 14 pazienti con T1D, 11 pazienti con malattia celiaca (celiac disease o CD) come controllo di malattia infiammatoria intestinale e 10 soggetti sani e condotto un’analisi dell’espressione genica in Taqman Low Density Array di 90 geni coinvolti nell’infiammazione: chemochine, citochine e loro recettori, recettori toll-like e altri geni dell’infiammazione e del rimodellamento tissutale. Il profilo di espressione genica risulta differente nei 3 gruppi. Infatti il confronto tra i pazienti con CD e i soggetti sani rivela che nella mucosa duodenale di questi pazienti sono significativamente più espressi i geni Ccl18, Ccl20, Ccl7, Cxcl9, Cxcl10, Cxcr1, Cxcr6, Fcg3rb, Ifnγ, Il8, Il1rn, Il1r2, Il8, Il10, Il17A and Nos2A mente i geni Alox5, Cd14, Csf1, Csf1r, Cx3cr1, Cxcl12, Cxcr7 e Il2, Il18, Il1r1, Tnfrsf1b, Tnfα, Il4r, Cd68, Ptx3 e VegfA risultano meno espressi. Invece nei pazienti diabetici sono significativamente più espressi rispetto ai controlli sani i geni Ccl13, Ccl16, Ccl19, Ccl22, Ccr2, Cxcr3, Ptgs2 (Cox2), Tnfα, Il4r, Cd68, Ptx3, VegfA. I risultati ottenuti in questo studio mostrano un pattern peculiare di espressione di geni dell’infiammazione nella mucosa duodenale di pazienti con T1D. L’identificazione di geni e pathways coinvolti nell’infiammazione intestinale è di cruciale importanza per la comprensione dei meccanismi alla base dell’eziopatogenesi del T1D e per eventuali future terapie mirate all’intestino.  


Progetto accoglienza per pazienti con recente diagnosi di diabete2

R. Dagani1, D. Carugo1, B. Arnaboldi1, M.R. Monaco2, A. Romanazzi2, S. Bruno2, A. Tomasich2

1Ambulatorio Diabetologia; 2UOC Psicologia Clinica, Rho (MI)

A partire da gennaio 2014, è stato avviato, presso  il Servizio di Diabetologia del PO di Rho (AO Salvini)  in collaborazione con il Servizio di Psicologia Clinica, un progetto di accoglienza per pazienti diabetici di nuovo accesso che integra  diverse figure professionali per offrire  un percorso di presa in carico chiaro e ben articolato, allo scopo di fornire gli strumenti utili a sviluppare una buona capacità di autogestione della malattia. In concomitanza della visita medica è previsto un colloquio psicologico volto alla conoscenza delle problematiche del soggetto connesse alla malattia. Contestualmente al primo colloquio con la psicologa, vengono raccolti i dati anamnestici e somministrati alcuni questionari. Viene, inoltre, offerta la possibilità di prender parte a piccoli gruppi di discussione e a gruppi psicoeducazionali, atti a implementare le competenze del paziente rispetto alla malattia e a migliorare la sua qualità della vita, ponendo, pertanto, particolare attenzione ad aspetti quali l’alimentazione e l’attività fisica. A tale scopo, vengono impiegate le Conversation Maps e proposto di prender parte anche ai gruppi cammino insieme ad altri pazienti, precedentemente preparati in qualità di Walking Leader. Sono, infine previsti, colloqui individuali di follow-up (1 e 12 mesi), volti a valutare eventuali cambiamenti inerenti alle variabili rilevate nel corso del primo colloquio. A tale scopo, nel corso del follow-up a 12 mesi vengono riproposti i questionari iniziali. Nei primi quattro mesi di attività, hanno preso parte al progetto 35 pazienti e sono stati avviati un gruppo di discussione e un gruppo psicoeducazionale.


Un programma per la diagnosi del diabete tipo 2 misconosciuto: la “fonte informativa” del Servizio di Pre-ricovero Chirurgico 

P. Galli1, E. Meneghini1, D.A. Ghelfi1, C. Baldi2, M. Caporiondo2, A. Rocca1

1Struttura Semplice Diabetologia e Malattie Metaboliche, SC Medicina, 2Pre-ricovero Chirurgico, SC Anestesia e Rianimazione, PO Bassini, Cinisello Balsamo, AO ICP Milano

Da oltre 10 anni presso la nostra Struttura è attiva una stretta collaborazione con i Colleghi Anestesisti per la gestione dell’accesso dei pazienti diabetici noti o iperglicemici di primo riscontro al Servizio di Pre-ricovero chirurgico (interventi in elezione delle Divisioni di: Chirurgia, Ortopedia, Urologia, Oculistica, ORL, Nefrologia), secondo uno specifico PDTA (DAR-SAR-PCH-PBA-IP-005 21.01.2013 – REV 2 bis). Dal 6/2013 abbiamo concordato di riservare un ulteriore inquadramento diagnostico a tutti i pazienti in accesso al Pre-ricovero, non noti per diabete, che presentino agli esami di routine previsti per l’intervento un valore glicemico compreso tra 101 e 125 mg/dl. In questi casi viene eseguita automaticamente anche determinazione di HbA1c, per “inquadrare” più correttamente l’iperglicemia riscontrata. I pazienti che rientrino come categoria diagnostica nella sola alterata glicemia a digiuno (IFG), ricevono una lettera, indirizzata al Curante, che segnala il riscontro dell’anomalia metabolica e la necessità di ulteriore follow-up in merito; i pazienti riconosciuti diabetici, vengono valutati in consulenza specialistica diabetologica, con accesso ambulatoriale diretto. Nel periodo giugno 2013-giugno 2014 sono stati individuati 758 pz con valore glicemico>100 mg/dl, su un totale di accessi al Pre-ricovero di 2925 pazienti, pari al 25,9%. Tutti questi pazienti hanno eseguito determinazione di Hb glicata, che ha evidenziato valore superiore a 48 mmol/mol – 6% in 158 soggetti, pari al 20,8% dei pazienti sottoposti a screening (corrispondente al 5,4% degli accessi totali al Pre-ricovero). Tutti questi pz hanno ricevuto indicazioni su corretto stile di vita e nozioni dietetiche qualitative. L’esperienza condotta ha permesso di confermare l’entità della problematica delle alterazioni misconosciute del metabolismo glucidico ed ha consentito di utilizzare come “risorsa” di screening precoce un canale di accesso alle Strutture sanitarie altrimenti sottoutilizzato.  

 


 


TESI

Mortalità e complicanze nell’obesità morbigena: studio prospettico a lungo termine dopo bendaggio gastrico o trattamento medico

Maria Elisa Tamagni 

Università degli Studi di Milano

Background e Obiettivi: i lavori sulla chirurgia bariatrica ad oggi pubblicati hanno alcuni limiti (scarsa aderenza al follow-up, breve durata). Scopo di questo studio è confrontare la mortalità e lo sviluppo di comorbidità in soggetti obesi trattati con bendaggio gastrico regolabile (LAGB) e controlli non operati, dopo follow-up di 15 anni.

Soggetti e metodi: abbiamo analizzato in uno studio prospettico di coorte di tipo record-linked i dati di 1490 pazienti [BMI≥35 kg/m2, età 18-65 anni, con o senza diabete mellito (DM)] sottoposti ad una prima visita nel periodo 1995-2001 e in seguito a trattamento chirurgico o medico in uno tra 4 ospedali di Milano [gruppo LAGB, n=527, di cui 73 con DM; gruppo di controllo, n=963, di cui 221 con DM]. L’analisi ha riguardato dati contenuti in cartelle cliniche (esami ematici e strumentali, parametri antropometrici) ed informazioni sullo stato in vita, sulla richiesta di esenzione per patologia (classificate secondo la ICD-X) e sui ricoveri dei soggetti in studio eseguiti entro il 30/09/2012. Tutti i pazienti sono stati individuati nel Database della Regione Lombardia attraverso codici identificativi.

Risultati: nei pazienti operati la mortalità è significativamente più bassa rispetto ai controlli (3,2% vs 9,6%); la differenza è significativa a partire dal sesto anno di follow-up e cresce con l’incrementare del periodo di osservazione. Risultati analoghi si hanno per la richiesta di esenzioni (25,2% LAGB vs 41,7% controlli) e per i ricoveri ospedalieri (22,7% LAGB vs 28,3% controlli). 

Conclusioni: in pazienti con obesità morbigena sottoposti a LAGB dopo 15 anni hanno mortalità inferiore rispetto ai controlli (mortalità per CVD che per non-CVD) e minore sviluppo di patologie croniche, in particolare CVD e DM. I risultati sono significativi sia per pazienti con DM sia per quelli senza DM e sono sovrapponibili anche dopo group-matching per alcuni parametri (età, BMI, sesso, pressione sistolica).


Dispendio energetico giornaliero, metabolismo del glucosio e composizione corporea in babbuini all’inizio dello studio e dopo una pancreasectomia parziale e 13 settimane di infusione continua di exenatide

Francesca Casiraghi

Università degli Studi di Milano

Il diabete mellito di tipo 2 (T2DM) è una malattia complessa sia dal punto di vista endocrino che metabolico; le cause principali che portano al suo sviluppo sono un aumento dell’insulino- resistenza e una ridotta azione dell’insulina. I primati non umani sono un ottimo modello per lo studio di diverse malattie che colpiscono il genere umano grazie alle caratteristiche comuni a livello genetico, fisiologico e anatomico proprio con l’uomo; infatti, sono già stati utilizzati in passato come modelli in numerosi studi riguardanti malattie cardiovascolari, sindrome metabolica, obesità, diabete ecc. Il babbuino rappresenta un modello molto simile all’uomo per quanto riguarda il metabolismo del glucosio e la trasduzione del segnale insulinico. Gli scopi di questa tesi sono principalmente due, il primo riguarda la conferma dell’utilizzo nell’ambito della ricerca del babbuino come modello per studi sull’effetto dell’attività fisica correlato con il miglioramento dello stile di vita tramite valutazione del dispendio energetico giornaliero; infatti, per tale motivo, abbiamo utilizzato un holter metabolico (SenseWear Armband [SWA]), già in uso nell’uomo, anche sui babbuini, per stimare il dispendio energetico giornaliero di questi primati. Il secondo scopo dello studio mira a chiarire, almeno in parte, gli effetti di un’infusione cronica in continuo di un analogo del GLP-1 (Exenatide), utilizzato per il trattamento del T2DM, in primati non umani, sulle cellule beta pancreatiche, sulla composizione corporea e sul metabolismo del glucosio. Nella prima parte dello studio possiamo affermare che il SWA utilizzato sui babbuini è uno strumento semplice e affidabile che può essere impiegato per stimare il dispendio energetico a riposo e durante l’attività fisica quotidiana. Nella seconda parte dello studio abbiamo inoltre riscontrato un importante effetto positivo di Exenatide sull’insulino sensibilità in babbuini normoglicemici. Questo studio nel suo complesso fornisce una solida base di partenza per futuri progetti di studio sulle malattie metaboliche, in particolare potrà essere un valido modello per lo studio dei meccanismi patogenetici del T2DM ed eventualmente suggerire l’utilizzo di farmaci analoghi del GLP-1, in pazienti selezionati, per salvaguardare il più a lungo possibile la riserva beta cellulare. 


Prevalenza e fattori di rischio per la disfunzione erettile nei pazienti con diabete mellito di tipo 2

Pamela Maffioli  

Università degli Studi di Pavia

Scopo: valutare la prevalenza della disfunzione erettile (DE) in 220 soggetti con diabete mellito di tipo 2 e il ruolo del compenso glico-metabolico, dell’insulino-resistenza, della disfunzione endoteliale e dell’aterosclerosi nello sviluppo di DE.

Materiali e Metodi: l’età media del campione è stata 61,33 ± 9,31 anni. Abbiamo somministrato i questionari: IIEF (International Index of Erectile Function) per valutare la presenza di disfunzione erettile, SAS (Self-rating Anxiety Scale) e SDS (Self-rating Depression Scale) per valutare la presenza di ansia e depressione. Abbiamo valutato l’indice di massa corporea (BMI), il valore di emoglobina glicata (HbA1c), l’insulinemia a digiuno (FPI), l’HOMA-IR, il profilo lipidico, gli ormoni sessuali e i livelli delle principali adipocitochine infiammatorie e di insulino-resistenza. 

Risultati: la prevalenza di DE è risultata del 52,91%, senza differenze tra i pazienti con e senza DE per quanto riguarda ansia e depressione. I pazienti con un valore di HbA1c <7% in tutte le misurazioni nei due anni precedenti l’osservazione, avevano una minore prevalenza di DE, mentre la prevalenza e la gravità della DE aumentavano all’aumentare delle volte che HbA1c era >7%. I pazienti affetti da DE avevano livelli più elevati di trigliceridi e FPI. I livelli di resistina e TNF-α sono risultati aumentati nei soggetti con DE rispetto a quelli senza DE. I livelli di omocisteina sono risultati maggiori nei pazienti con DE rispetto a quelli senza DE. I valori di testosterone libero sono risultati più bassi nei soggetti con DE. I pazienti con DE hanno riportato un maggiore punteggio alla biotesiometria peniena ed un minor punteggio alla manovra di Valsalva. Il valore di spessore medio intimale carotideo destro è risultato maggiore nei soggetti con DE. 

Conclusioni: i fattori coinvolti nello sviluppo della DE sembrano essere, soprattutto, gli elevati livelli di trigliceridi e di insulinemia, la disfunzione endoteliale  e l’aterosclerosi.


LA COMPLIANCE ALLO SCREENING PER IL DIABETE GESTAZIONALE NELLE DONNE IMMIGRATE DI PRIMA GENERAZIONE: STUDIO DI POPOLAZIONE IN REGIONE LOMBARDIA NEL PERIODO 2007-2010

Sara Pinto

Università Vita-Salute San Raffaele

Introduzione: oltre il 25% delle donne che partoriscono in Lombardia è nata all’estero e le immigrate di prima generazione hanno un aumentato rischio di diabete di tipo 2.

Obiettivi: paragonare nelle donne nate in Italia e nelle donne nate all’estero: 1. la proporzione di gravidanze sottoposte a screening per DG, complessivamente e per anno di osservazione, età materna e provincia di residenza; 2. la distribuzione della settimana gestazionale (SG) allo screening.

Materiali e Metodi: questo studio osservazionale di popolazione è stato condotto analizzando i database amministrativi del Servizio Sanitario Lombardo, includendo tutte le residenti non diabetiche prima della gravidanza che hanno partorito dal 01/01/2007 al 31/12/2010. Nel periodo di studio lo screening per DG prevedeva un challenge test con 50g di glucosio, seguito eventualmente da un OGTT con 100g.

Risultati: nel periodo di interesse i parti in Lombarda sono stati 345.210, di cui il 26,5% in donne nate all’estero. La proporzione di gravidanze con screening per DG è maggiore nelle donne nate all’estero rispetto alle donne nate in Italia (rispettivamente 31,6% e 29,9%, p<0,0001). La proporzione di gravidanze con screening per DG aumenta negli anni dello studio e con l’età materna, con aumenti maggiori nelle donne nate all’estero rispetto alle donne nate in Italia (rispettivamente: +9,0% e +3,8% dal 2007 al 2010, p<0,0001; e +19,4% e +9,5% passando da <20 anni a ≥45 anni di età, p<0,0001). La SG mediana allo screening per DG è maggiore nelle donne nate all’estero rispetto alle donne nate in Italia (rispettivamente 25,4 vs 24,8 settimane) con il 6,7% delle gravidanze con screening oltre la 32a SG nelle donne nate all’estero vs il 3,3% nelle donne nate in Italia (p<0,001). La proporzione di gravidanze sottoposte a screening per DG è molto eterogenea nelle diverse province Lombarde, indipendentemente dal luogo di nascita (19,2-48,7% nelle donne nate all’estero e 19,8-51,3% nelle donne nate in Italia).

Conclusioni: alle donne immigrate è riconosciuto un aumentato rischio di DG, che si traduce in una maggiore proporzione di gravidanze di donne nate all’estero sottoposte a screening rispetto alle donne nate in Italia. Tuttavia, la bassa frequenza di screening per DG (soprattutto nella fascia di età ≥35 anni), l’eterogeneità dello screening nelle diverse province Lombarde, e il ritardo nello screening nelle donne nate all’estero supportano la necessità di programmi per la formazione degli operatori sanitari mirati ad aumentare la consapevolezza dei rischi associati al DG ed eliminare le barriere allo screening per DG.


Controllare il Diabete di Tipo 1 agendo sull’immunità innata o su quella adattativa

Andrea Valle

Università Vita-Salute San Raffaele

In questo lavoro abbiamo raccolto dati riguardanti il ruolo dell’immunità innata e di quella adattativa nel Diabete di Tipo 1 (T1D), sfruttando modelli preclinici e campioni raccolti sia da soggetti diabetici all’insorgenza della patologia che da soggetti a rischio di svilupparla.

I nostri dati dimostrano un’associazione tra il T1D e un lieve stato di neutropenia. Tale neutropenia precede e accompagna lo sviluppo clinico della patologia. Non solo, cellule polimorfonucleate sono state riscontrate in biopsie pancreatiche raccolte da donatori cadaverici sia all’insorgenza della patologia che in stadi avanzati di quest’ultima, indicando un possibile coinvolgimento di queste cellule nello sviluppo del T1D. A sostegno di questa ipotesi l’eliminazione temporanea dei neutrofili o il blocco della loro migrazione mediante un inibitore del recettore CXCR1/2 prevengono e temporaneamente bloccano la patologia in un modello preclinico di T1D (i.e. topi NOD). Nel loro complesso questi dati evidenziano un possibile meccanismo alla base del T1D e propongono i neutrofili come nuovo bersaglio terapeutico.

Parallelamente all’immunità innata, anche quella adattativa può costituire un bersaglio terapeutico per il trattamento del T1D. Combinando citofluorimetria e bioinformatica abbiamo dimostrato che diverse popolazioni di linfociti T esprimono differenti livelli di CD3 e che queste differenze spiegano, almeno in parte, il meccanismo d’azione dell’anti-CD3, un composto promettente per il trattamento del T1D. I nostri dati dimostrano che cellule T regolatorie CD4+FoxP3+ esprimono livelli più bassi di CD3 rispetto a cellule T effettrici CD4+FoxP3-, sia in modelli preclinici che nell’uomo, indipendentemente dalla presenza della malattia. In accordo con questa minore espressione di CD3, le cellule T regolatorie CD4+FoxP3+, contrariamente alle cellule T effettrici CD4+FoxP3-, non vengono eliminate in seguito al trattamento con anti-CD3, e possono quindi ristabilire il corretto equilibrio tra tolleranza e immunità. Questi risultati dimostrano che l’eterogeneità nell’espressione del CD3 conferisce alle diverse popolazioni linfocitarie una differente suscettibilità all’anti-CD3, identificando un possibile meccanismo d’azione di questo promettente composto e fornendo utili evidenze per migliorarne l’efficacia clinica.


CONTEGGIO DEI CARBOIDRATI, QUALITÀ DI VITA E CONTROLLO METABOLICO IN SOGGETTI DIABETICI DI TIPO 1 IN TERAPIA INSULINICA SOTTOCUTANEA CONTINUA (CSII) O TERAPIA INSULINICA BASAL BOLUS: STUDIO DI INTERVENTO 

Anna Zanardini

Università degli Studi di Milano 

Scopo dello studio: da Giugno 2013 presso l’U.O. di Medicina II dell’ A.O. San Paolo di Milano è stato progettato e avviato uno specifico percorso educativo per permettere ai pazienti con diabete di tipo 1 di utilizzare il conteggio dei carboidrati come approccio di terapia medica nutrizionale.  L’obiettivo principale dello studio di intervento è stato quello di valutare gli effetti del counting dei carboidrati sul controllo metabolico, in particolare sull’emoglobina glicata (HbA1c), peso corporeo, BMI e dose di insulina giornaliera (UI/die), in due gruppi di pazienti adulti diabetici di tipo 1: gli uni in terapia insulinica sottocutanea continua (CSII) e gli altri in terapia insulinica con schema basal bolus. Obiettivo secondario è stato valutare la qualità di vita e la soddisfazione al trattamento attraverso i questionari validati ADDQoL e DTSQs.

Materiali e Metodi: lo studio effettuato è uno studio di intervento, controllato, a gruppi paralleli. Sono stati presi in esame 41 pazienti diabetici di tipo 1, di ambo i sessi (46% F, 54% M), di età compresa tra 18-75 anni, (con una media di 42,4 anni ± 13,1), di cui il 37% in terapia insulinica sottocutanea continua (CSII) e il 63% in terapia insulinica con schema basal bolus, che afferivano al centro diabetologico dell’ U.O. di Medicina II dell’A.O. San Paolo di Milano. I pazienti sono stati suddivisi in due gruppi sulla base della modalità di infusione insulinica in atto: terapia sottocutanea continua (CSII) o terapia insulinica basal bolus. All’interno di ciascun gruppo i pazienti sono stati allocati, dopo richiesta e su loro volontaria accettazione, nel gruppo dei casi, che hanno seguito il percorso sul conteggio dei carboidrati con la dietista, il quale prevedeva quattro incontri, due di gruppo e due individuali, oppure nel gruppo dei controlli, i quali hanno proseguito con il solito trattamento. Sono stati valutati peso, BMI, UI/die, HbA1c di partenza e a 3 mesi dall’intervento, e sono stati effettuati i questionari validati per valutare la qualità di vita (ADDQoL) e la soddisfazione al trattamento (DTSQs). 

Risultati: dall’analisi statistica dei dati è possibile affermare che indipendentemente dalla tecnica di iniezione, sottocutanea continua (CSII) o multiniettiva con schema basal bolus, è stata osservata una differenza significativa della variabile emoglobina glicata (HbA1c) post intervento tra casi e controlli (p=0,05). Tuttavia dall’analisi della variazione dell’HbA1c pre-post intervento all’interno di ciascun gruppo, non sono emerse differenze statisticamente significative, nonostante si possa osservare una tendenza alla riduzione di tale parametro nei pazienti che hanno seguito il precorso sul conteggio dei carboidrati. Dal confronto tra casi e controlli è emersa una variazione statisticamente significativa nella dose di insulina giornaliera (UI/die) pre-post intervento (p=0,03), in particolare i pazienti che hanno effettuato il conteggio dei carboidrati hanno ridotto di -3,8 ± 8,8 la dose giornaliera. Dal confronto tra i due gruppi di trattamento, pazienti in terapia insulinica continua (CSII) e in terapia insulinica multiniettiva con schema basal bolus, è stata evidenziata una variazione significativa della dose di insulina giornaliera pre-postintervento (p=0,01), in particolare i pazienti in CSII hanno mostrato una riduzione di -4,6 ± 8,9 unità. Anche dal confronto tra tutti e quattro i gruppi è emersa una variazione significativa nella dose di insulina giornaliera pre-post intervento (p=0,0020), in particolare i pazienti in terapia insulinica sottocutanea continua (CSII) che hanno applicato il conteggio dei carboidrati hanno riportato una riduzione di -8±10,3 unità. 

Dal confronto tra casi e controlli è stata evidenziata una maggior soddisfazione al trattamento nel gruppo dei casi, i quali applicano il conteggio dei carboidrati (p=0,047). Dalla stessa analisi effettuata all’interno di tutti e quattro i gruppi è emersa una differenza significativa ( p=0,0078), in particolare l’effetto migliore si è verificato nei casi in terapia sottocutanea insulinica continua (CSII) (44,46 vs 36,41 UI/die) (p<0,05). Nel gruppo dei casi in terapia insulinica sottocutanea continua (CSII) si osserva una differenza significativa al 10% nell’indice sulla qualità di vita ADDQoL (p=0,08 n.s.), un miglioramento nella qualità di vita dei casi e un aumento della soddisfazione al trattamento (DTSQs) (p= 0,07 n.s.).

Conclusioni: da questo studio di intervento a gruppi paralleli emerge una riduzione significativa della dose di insulina giornaliera nei casi, che hanno effettuato il conteggio dei carboidrati (p=0,0020), ed in particolare nei pazienti in terapia insulinica sottocutanea continua (CSII) che hanno effettuato il conteggio dei carboidrati (p<0,05), a conferma del fatto che tale tecnica consente di stimare nel modo più preciso la dose di insulina necessaria per coprire i carboidrati del pasto e di conseguenza migliora il controllo metabolico. Come emerso dai risultati, l’emoglobina glicata rilevata al termine dell’intervento è migliore nei casi rispetto ai controlli (p=0,05), tuttavia la variazione della stessa all’interno dei gruppi, prima e dopo intervento, non è supportata da significatività statistica. Ciò che risulta evidente è la soddisfazione dei pazienti alla nuova terapia basata sul conteggio dei carboidrati, la quale si traduce in una maggior libertà di scelta alimentare, miglior controllo della glicemia postprandiale, miglior gestione della terapia insulinica e quindi miglior qualità di vita. Riconoscendo i limiti dello studio, tra cui la ridotta numerosità del campione, è possibile ipotizzare che con un numero superiore di soggetti e con una verifica a 6 e 12 mesi dall’intervento, tali risultati possano essere più significativi. 


UTILIZZO CLINICO DEI SISTEMI INTEGRATI DI INFUSIONE INSULINICA E MONITORAGGIO IN CONTINUO DELLA GLICEMIA IN PAZIENTI ADULTI AFFETTI DA DIABETE TIPO 1

Ahmad Tfaily

Università degli Studi di Brescia

La gestione intensiva della terapia insulinica permette di prevenire e/o rallentare le complicanze microvascolari, ma si associa ad un maggior rischio di ipoglicemia, che rappresenta attualmente il maggior ostacolo al raggiungimento dell’obiettivo terapeutico. Gli studi di intervento hanno dimostrato che nel diabete di tipo 1 il monitoraggio in continuo della glicemia (SAP) può contribuire a ridurre i livelli di HbA1c e il rischio di ipoglicemie ed aumentare la percentuale di soggetti che raggiungono i target terapeutici soprattutto quando venga utilizzato in continuo. D’altra parte gli studi hanno rilevato percentuali di abbandono e/o utilizzo parziale della SAP particolarmente elevate. Scopo di questo studio è stato quello di valutare l’efficacia clinica, la sicurezza, le modalità di utilizzo, il gradimento e le eventuali cause di abbandono della SAP in pazienti affetti da diabete mellito tipo 1 seguiti dall’UO di Diabetologia degli Spedali Civili di Brescia. Complessivamente, nel periodo 2008-2012 hanno posizionato il sistema integrato (SI) 37 pazienti. Le indicazioni all’utilizzo della SAP erano: 48% instabilità metabolica grave, 29% inadeguato controllo metabolico e 24% ipoglicemie severe e/o la perdita della sensibilità all’ipoglicemia. Entro un anno, 10 (27%) dei 37 pazienti che hanno iniziato la SAP hanno interrotto l’uso del sensore. Il drop out si è realizzato in media dopo un periodo di 4,7±3,9 mesi. I motivi dell’abbandono dell’uso del sensore erano distribuiti come segue: complessità nell’utilizzo (4 pazienti), inefficacia (2), fastidiosità degli allarmi (2), portabilità (1) e richiesta del paziente di tornare alla MDI (1). Fattori predittivi dell’abbandono erano un uso sensore < al 50% del tempo (p=0,000) e livello di scolarità inferiore (p=0,026). Abbiamo registrato una significativa differenza nel tempo medio di utilizzo del sensore: 11,1±4,55 giorni/mese nel gruppo che ha interrotto vs 22,71±7,44 giorni/mese nel gruppo che ha proseguito nell’uso del sensore (p=0,001). Ad 1 anno di tempo abbiamo registrato un significativo calo dell’emoglobina glicata nei 27 pazienti che hanno proseguito ad utilizzare la SAP (7,90±0,93% vs 7,45±0,7 %; p<0,001). I fattori predittivi per calo dell’emoglobina glicata sono stati valori più elevati di HbA1c all’inizio della SAP (p=0,013), l’uso calcolatore di bolo (p=0,025) e un’età maggior all’inizio della terapia con SAP (p=0,05). Abbiamo registrato una significativa riduzione sia della % di pazienti che del numero episodi/anno di ipoglicemie gravi, che sono diminuite durante la SAP dal 14,3% al 7,1% (p<0001), passando da 2,4 episodi/anno/paziente ad 1 episodio/anno/paziente. Abbiamo rilevato una riduzione significativa del numero dei pazienti che riportava episodi di cheto acidosi (3 vs 1).

Riguardo all’uso del SI i pz riportano: impostazione vibrazione nel 79%; modalità silenziata: 52% mai, 26% 1-5 volte/settimana e 22% tutti i giorni; di questi il 63% mai per più di 6 ore, il 19% sempre. Le funzioni ritenute più importanti: frecce di tendenza (53%), grafici dei trend (50%); uso continuo sensore fino a 7 giorni (50%), integrazione del microinfusore con il ricevitore (46%), impostazioni personalizzabili (43%). Solo il 45% dei pazienti conosce tutti i propri settaggi degli allarmi. Il 92,6% riferisce di essere stato svegliato per un allarme nelle ultime due settimane; più del 40% 5 o più volte nelle ultime 2 settimane; il 34% dichiara soddisfacente la qualità del sonno. L’82% dei pazienti è consapevole dell’importanza di accuratezza e calibrazione; il 53% visualizza il display più di 10 volte/die, soprattutto i dati a breve medio termine (3-6h) . L’82% dei pazienti scarica ed invia i dati. L’85% dei pazienti è soddisfatto dell’inserimento del sensore, il 56% della portabilità ed il 75% del sistema di scarico. 

Quest’analisi osservazionale conferma, da una parte l’efficacia e la sicurezza della SAP, dall’altra che l’abbandono del sensore avviene precocemente e sembra riguardare pazienti meno attivi nell’autogestione. Pur rilevando una discreta preparazione e soddisfazione di chi usa il sistema integrato, lo studio ci ha permesso di identificare elementi per migliorare e completare il percorso di selezione e formazione dei pazienti.