Esiste un ruolo per gli inibitori di SGLT-2 o di SGLT-1/2 come trattamento aggiuntivo del diabete tipo 1?

La terapia insulinica finalizzata al raggiungimento di un controllo glicemico ottimale può contribuire a ridurre il peso delle complicanze micro- e macrovascolari nelle persone con diabete tipo 1 (DMT1). Tuttavia, la somministrazione periferica dell’insulina, la mancanza del fisiologico feedback in risposta alle variazioni glicemiche, l’eventuale alterazione della risposta controinsulare all’ipoglicemia, sono tutti fattori che favoriscono l’accentuata variabilità glicemica oltre che condizionare l’incremento di peso. L’aggiunta di altri farmaci è stata quindi proposta nel tentativo di migliorare il controllo glicemico, ridurre il rischio di ipoglicemia e garantire un maggior controllo del peso corporeo. Peraltro, l’obiettivo delle terapie aggiuntive non deve essere né un tentativo di parziale sostituzione del trattamento insulinico né perseguire lo scopo di ridurre il fabbisogno insulinico. La letteratura riporta risultati variabili con l’aggiunta di metformina alla terapia insulinica. Più recentemente, grande interesse è stato generato dall’introduzione degli inibitori del cotrasportatore sodio-glucosio.

Efficacia degli inibitori SGLT nel DMT1

Lo studio di Mondick et al (75) ha confrontato la farmacocinetica e la farmacodinamica di empagliflozin, un inibitore del cotrasportatore sodio glucosio di tipo 2 (SGLT-2i), nel DMT1 e nel diabete tipo 2 (DMT2). Nello studio sono stati utilizzati tre diversi dosaggi di empagliflozin (5 mg, 10 mg, 25 mg) partendo dall’assunto che, in soggetti con normale funzione renale, la glicosuria sia funzione della glicemia e del filtrato glomerulare. Nel DMT1 è stato osservato che il carico tubulare massimo per il glucosio e la soglia renale relativa sono ridotti rispetto al DMT2, per cui la glicosuria compare per livelli di glicemia più bassi. Nello studio è stato dimostrato che nel DMT1 l’escrezione urinaria di glucosio, a parità di dose, è maggiore rispetto a quella osservata nel DMT2. A conferma di tale osservazione, due studi (76-77) hanno documentato che nel DMT1 si ottiene un effetto terapeutico anche con una dose SGLT-2i inferiore rispetto a quella utilizzata normalmente nel trattamento del DMT2. Il livello di glicosuria ottenuta con empagliflozin 2.5 mg (circa 70 g/24 h) è praticamente analoga a quella che si osserva nel DMT2 con una dose quattro volte superiore (Fig. 17). Da qui deriva l’ipotesi che nel DMT1 tali farmaci possano essere efficaci anche a dosi più basse. I presupposti fisiopatologici di tale ipotesi si basano sul fatto che, mediamente, il soggetto con DMT1 ha un andamento più irregolare del profilo glicemico, con una maggior frequenza di picchi iperglicemici e conseguente accentuazione dell’effetto glicosurico del farmaco.

L’aumentata risposta glicosurica allo SGLT2i potrebbe trovare una spiegazione anche nell’iperfiltrazione, fattore di rischio della nefropatia presente in circa il 60% delle persone con DMT1 (78). Alcuni modelli sperimentali di DMT1, infine, documentano un aumento dell’espressione e dell’attività dei cotrasportatori sodio-glucosio (79-80). L’insieme di tutti questi fattori potrebbe, dunque, tradursi in un maggiore effetto glicosurico.

Il primo studio pilota con SGLT-2i, della durata di otto settimane, condotto in un piccolo gruppo di pazienti con DMT1 (81) ha evidenziato una riduzione significativa, seppur di piccola entità, della HbA1c e della glicemia insieme alla riduzione delle ipoglicemie sintomatiche (dato non confermato nei successivi trial randomizzati), una riduzione del fabbisogno insulinico (inizialmente considerato come un aspetto positivo) e del peso corporeo.

Uno studio proof of concept (82), della durata di due settimane ha valutato la curva dose-risposta con dapagliflozin in 70 pazienti con DMT1 evidenziando un aumento dose-dipendente della glicosuria, un effetto neutro sul profilo glicemico delle 24 ore e solo un modesto effetto dose-dipendente sulla glicemia media. Il fabbisogno insulinico si riduceva del 15-16% unicamente a carico della dose prandiale, mentre non si osservava riduzione alcuna del fabbisogno di insulina basale.

Risultati simili sono stati ottenuti con canagliflozin, in uno studio83 che ha evidenziato una riduzione della HbA1c pari a 0.3-0.4% alla dose di 100 e 300 mg, in associazione a una modesta riduzione dei livelli di glicemia a digiuno e del dosaggio dell’insulina.

Principali studi clinici randomizzati

Nello studio a gruppi paralleli con placebo in doppio cieco EASE-1 (76) è stato confrontato l’effetto di empagliflozin alla dose di 2.5 mg, 10 mg o 25 mg die in aggiunta all’insulina per 4 settimane. Pieber e colleghi hanno osservato una riduzione significativa di HbA1c [4-5 mmol/mol (-0.4%), p<0.05)], della dose totale di insulina (-0.070.09 U/kg) e del peso (-1.51.9 kg), con un effetto trascurabile sulla glicemia a digiuno e un effetto più rilevante sulla glicemia media.

Nell studio EASE-2 (84) le dosi di empagliflozin 10 e 25 mg, comportavano un’analoga riduzione dell’HbA1c (-0.4%). Lo studio EASE-3 ha evidenziato che l’impiego di una dose (2.5 mg) ancor più bassa di empagliflozin, per un anno, aveva un effetto trascurabile sui livelli di HbA1c (-0.25%). Una migliore efficacia veniva riscontrata nei soggetti con livelli iniziali di HbA1c più elevati ma, l’ipotesi che nel DMT1 si possa ottenere un’efficacia sui valori di HbA1c con dosi inferiori di SGLT-2i non è stata confermata dall’insieme di tali osservazioni. In entrambi gli studi il filtrato glomerulare rimaneva invariato.

Quello di Shimada A. e colleghi (85) è, ad oggi, l’unico studio eseguito in soggetti con DMT1 di etnia diversa da quella caucasica. Si tratta di uno studio di breve durata condotto in una popolazione giapponese. Il trattamento con dapagliflozin induceva una glicosuria delle 24 h di circa 100 g, con una riduzione dell’HbA1c pari a 0.35%.

Nello studio DEPICT-1 (86), condotto in pazienti con DMT1 con inadeguato controllo glicemico, il trattamento con 5 o 10 mg di dapagliflozin per 52 settimane ha indotto una riduzione di HbA1c di almeno 0.5%, in assenza di eventi ipoglicemici severi, in una maggiore percentuale di soggetti rispetto al gruppo placebo. Inoltre, è stata osservata una riduzione del fabbisogno quotidiano di insulina di circa il 15%.

Nello studio DEPICT-2 (87), della durata di 24 settimane, il trattamento con dapagliflozin 10 mg e 25 mg rispettivamente, induceva una riduzione di HbA1c dello 0.37% e 0.42%, una modesta riduzione del fabbisogno insulinico giornaliero, a fronte di un aumento gli eventi di chetosi con sospensione del trattamento con il farmaco nel 3% dei pazienti. Questi eventi erano più numerosi rispetto a quanto osservato in DEPICT-1, una differenza che potrebbe essere imputata ad uno specifico intervento educativo cui i soggetti di questo studio venivano sottoposti.

Da questi studi non emerge una significativa differenza nel numero di ipoglicemie tra soggetti assegnati a placebo e quelli trattati con SGLT-2i, mentre ridotta appare la variabilità glicemica. Tuttavia, al fine di poter apprezzare appieno i benefici terapeutici di questi farmaci, sembra indispensabile operare un’attenta selezione dei pazienti, con particolare riguardo alla loro capacità di applicare la conta dei carboidrati, eseguire un regolare controllo della chetonemia e gestire, autonomamente il controllo glicemico. In uno studio pilota con sotagliflozin (88), un doppio inibitore SGLT-1/2 condotto in 33 soggetti, di cui 16 randomizzati a sotagliflozin e 17 a placebo si è osservata una riduzione del fabbisogno insulinico del 32% e una riduzione della glicemia media registrata con CGM (Continuous Glucose Monitoring). Si è anche osservato, rispetto al placebo, un aumento significativo del tempo trascorso nel range di glicemia compreso 70-180 mg/dL e una riduzione di quello trascorso in iperglicemia (>180 mg/dL).

Nello studio inTANDEM-1 (89) sono stati reclutati soggetti con DMT1 in trattamento insulinico ottimizzato per sei mesi, nei quali è stato aggiunto per altri sei mesi placebo o sotagliflozin. Anche in pazienti già in trattamento intensificato e con un buon valore di HbA1c di partenza lo studio dimostrava una riduzione di HbA1c di circa 0.4%. Inoltre, in un sottogruppo di 136 soggetti dello studio inTANDEM-1 monitorati con CGM, si documentava una maggiore stabilizzazione delle glicemie e una minore permanenza a livelli glicemici >180 mg/dL.

Nel DMT1 la riduzione dell’iperfiltrazione indotta da SGLT-2i appare, ovviamente, massimizzato. Škrtić e colleghi (90) hanno dimostrato come nei soggetti con DMT1 iperfiltranti la riduzione del tono dell’arteriola glomerulare afferente e la conseguente vasodilatazione favorisca l’aumento della pressione idrostatica intra-glomerulare. Tale effetto è stato attribuito all’aumentata attività dei SGLT2 con conseguente riduzione del carico di sodio a livello della macula densa e quindi riduzione della produzione di adenosina e del suo effetto vaso-costrittivo a livello dell’arteriola afferente. Gli inibitori di SGLT-2 sembrano, almeno parzialmente, correggere questa condizione ripristinando il tono dell’arteriola afferente con riduzione della pressione idrostatica intra-glomerulare e della frazione di filtrazione (91).

Infine, va ricordato che la riduzione del peso corporeo di circa 2.0-2.5 kg e della pressione arteriosa, ampiamente descritti nel DMT2 sono confermati anche nel DMT1. Uno studio pilota ha valutato l’effetto sull’escrezione renale di acido urico durante clamp in soggetti con DMT1 (92). All’aumentare della glicemia si osservava una riduzione progressiva dei livelli plasmatici di acido urico, con contestuale aumento della sua escrezione frazionale. Lo stesso tipo di andamento dell’escrezione di acido urico si ottiene dopo trattamento con SGLT-2i. Il significato clinico di questa riduzione non è completamente chiaro ma viene ipotizzato un possibile effetto positivo.

Sicurezza d’uso degli inibitori di SGLT-2 nei pazienti con DMT1

McCrimmon e colleghi (93), in una analisi degli effetti collaterali e delle controindicazioni presenti in tutti gli studi di fase III condotti con SGLT-2i nei pazienti con DMT1, hanno documentato un aumento del rischio di chetoacidosi e di infezioni genitali senza incremento del rischio di ipoglicemie severe.

Anche i risultati inerenti alla sicurezza generale dei due trial EASE-1 e EASE-2, condotti con empagliflozin (84), hanno evidenziato un aumento significativo del numero degli eventi correlati al trattamento e di quelli che hanno portato ad un’interruzione del trattamento, oltre ad un aumento di tre volte del numero di infezioni genitali e di eventi legati alla riduzione della volemia.

Negli studi sopra citati è stata posta grande attenzione nell’aggiudicare gli episodi di chetoacidosi: il numero di eventi aggiudicati nello studio EASE è stato di 47, di cui 9 severi, 25 moderati e 13 lievi, oltre ad altri 39 potenziali casi di chetoacidosi. Dei 47 casi aggiudicati, 6 hanno riguardato il gruppo placebo, 21 il gruppo trattato con empagliflozin 10 mg, 18 il gruppo trattato con empagliflozin 25 mg.

ZUn piccolo studio (94) aperto, di cross-over, ha analizzato gli effetti acuti dell’aggiunta di dapagliflozin all’insulina nel DMT1 su insulino-sensibilità, escursioni glicemiche postprandiali e produzione di chetoni in corso di clamp iperinsulinemico euglicemico e OGTT. La somministrazione di dapagliflozin a breve termine non influenzava le escursioni postprandiali della glicemia né la sensibilità insulinica. Dopo OGTT si osservava una riduzione dei corpi chetonici ed un incremento di GLP-1, in misura maggiore con il trattamento con dapagliflozin rispetto al placebo. Il livello di acidi grassi liberi non differiva nei due gruppi di trattamento e la chetonuria era assente in entrambi.

Accanto alle più note condizioni che sono alla base della chetoacidosi, quali l’aumento della lipolisi e la riduzione dell’insulinemia, è stato ipotizzato un contributo diretto del rene che comporterebbe un aumento del reservoir renale e del riassorbimento dei corpi chetonici (95). Non esistono invece evidenze su un eventuale aumento della natriuresi, fenomeno che si baserebbe su un aumento compensatorio di altri trasportatori tubulari del sodio.

Nello studio DEPICT (96), è stato evidenziato un aumento delle concentrazioni plasmatiche di β-idrossi-butirrato per riduzioni della posologia di insulina >20%. Pertanto, si raccomanda che nei soggetti con DMT1 che iniziano terapia aggiuntiva con SGLT-2i, si debba limitare al massimo del 20% la riduzione della dose giornaliera di insulina (93). La Tabella V riassume le correnti raccomandazioni da osservare quando si introduce un SGLT2i nella terapia della persona con DMT1.

Alla luce dei risultati disponibili, l’impiego di SGLT-2i nel DMT1 in aggiunta alla terapia insulinica sembra percorribile. Recentemente il Comitato per i prodotti Medici per Uso Umano (CHMP) dell’EMA ha dato una raccomandazione positiva per l’uso di dapagliflozin nei soggetti adulti con DMT1 con un BMI >27kg/m2 che non raggiungano il target glicemico nonostante l’intensificazione della terapia insulinica. Una preoccupazione rispetto al rischio di chetoacidosi è stata avanzata dalla FDA dopo l’analisi dei dati di sotagliflozin con un voto pari tra coloro che, nella commissione di valutazione, hanno dato parere positivo e quelli che lo hanno formulato negativo per l’indicazione all’uso di sotagliflozin nel soggetto con DMT1. Una decisione finale è attesa per la fine di Marzo 2019.

Infine, a completamento delle conoscenze sarebbero auspicabili studi che permettano di definire:

  • – la dose-risposta degli SGLT2i in pazienti con e senza compromissione renale
  • – l’identificazione di biomarcatori in grado di identificare i pazienti a rischio di chetoacidosi
  • – l’effetto nel DMT1 sulla malattia cardiovascolare e/o insufficienza renale

Va in ogni caso sottolineato che l’utilizzo degli SGLT-2i nel DMT1 non può prescindere da un’adeguata educazione del paziente e degli operatori sanitari coinvolti nel percorso terapeutico.

HIGHLIGHTS

  • La soglia renale della glicosuria nei pazienti con diabete tipo 1 sembra essere più bassa rispetto a quella dei pazienti con diabete tipo 2
  • L’aggiunta di SGLT-2i al trattamento insulinico nel diabete tipo 1 comporta una riduzione della HbA1c dello 0.3-0.5% e del fabbisogno insulinico, in presenza di un aumento di tre-quattro volte del rischio di chetoacidosi
  • L’utilizzo degli SGLT-2i nel diabete tipo 1 non appare associato ad un aumentato rischio di ipoglicemia
  • Anche nel diabete tipo 1 gli SGLT-2i esercitano un effetto di riduzione del peso corporeo e della pressione arteriosa
  • Si raccomanda la massima attenzione nella scelta del soggetto da avviare al trattamento con SGLT2i e una sua attenta sorveglianza
  • È indispensabile implementare processi educativi per la persona con diabete tipo 1 così come per tutti gli operatori coinvolti nel percorso terapeutico

 

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