Gabriella Gruden Dipartimento di Scienze Mediche, Università degli Studi di Torino
Oltre trent’anni fa uno studio condotto su una piccola casistica dimostrava che oltre l’80% dei pazienti con diabete di tipo 1 (DM1) e microalbuminuria progredivano col tempo a nefropatia diabetica conclamata (1). Da allora numerose pubblicazioni hanno confermato il valore della microalbuminuria come marcatore di nefropatia diabetica (ND) e rischio cardiovascolare. Tuttavia, studi prospettici successivi, condotti su casistiche più ampie, hanno evidenziato che il valore predittivo della microalbuminuria per la sviluppo di macroalbuminuria era meno forte di quanto si ritenesse (2). Inoltre, alterazioni strutturali possono essere già presenti nei soggetti con microalbuminuria di nuova diagnosi a suggerire che la microalbuminuria sia più una fase precoce di malattia che un biomarcatore (3). Infine, l’implementazione di efficaci strategie terapeutiche, come l’ottimizzazione del compenso glicemico e l’uso dei bloccanti del sistema renina angiotensina (RAS), ha profondamente mutato la storia naturale della malattia ed oggi solo circa un terzo dei soggetti con microalbuminuria progredisce a macroalbuminuria ed una consistente percentuale di pazienti regredisce a normoalbuminuria (4). Pertanto, la microalbuminuria ha perso gran parte del suo potere predittivo e sarebbe quindi importante individuare nuovi marcatori in grado di identificare i soggetti diabetici destinati a sviluppare un’albuminuria persistente e progressiva.
FAD ECM “IL DIABETE”
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